Giorno 57

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Erano arrivati dal cielo, come uno sciame di piccole mosche. Non erano mosche, però: erano elicotteri, imponenti elicotteri blu che ronzavano e oscuravano il sole, proiettando macchie d'ombra sull'asfalto delle strade e sulle distese di granturco.

Era un giovedì. Io e mia madre eravamo in casa, soli. Ricordo bene quel giorno: io sedevo a terra, mi mangiavo le unghie e piangevo; lei era accanto a me e mi accarezzava i capelli. Poi, d'improvviso, quel ronzio. Sempre più forte, fino a diventare incessante, interrotto solo dal coro degli altoparlanti. Le voci erano possenti, autoritarie, ma non ricordo una parola: guardavo mia madre in silenzio, le lacrime ormai secche sulla pelle e un'espressione interrogativa in viso.

Entrambi eravamo corsi fuori. Ai piedi della veranda avevamo trovato alcuni uomini in divisa che marciavano verso di noi. Imbracciavano lunghe armi e portavano caschi protettivi: i volti erano difficili da distinguere, celati dalle visiere sulle quali si rifrangeva il sole di mezzogiorno.

Attorno a noi, una gran folla di persone si era riversata fuori dalle abitazioni. Era gente spaesata, confusa, che aggrottava la fronte e deambulava senza scopo.

Mi ero sforzato di cogliere le parole che gli elicotteri facevano piovere su di noi.
Mantenete la calma, diceva il coro di voci. Il ricollocamento avrà luogo a momenti.

Solo un attimo più tardi avevo scoperto cosa si intendesse per "ricollocamento". Gli uomini in divisa avevano raggiunto la nostra veranda, ci avevano pregati di indossare un'ingombrante maschera antigas e alla fine ci avevano tranquillamente comunicato che entro l'indomani avremmo raggiunto la nostra nuova casa, il Midwest.

Inizialmente avevamo pensato a un qualche scherzo di grossa portata. Ma i minuti erano passati, si erano trasformati in ore, e col tempo avevamo dovuto accettare l'idea che la vita così come la conoscevamo non sarebbe più stata la stessa.

Da quel momento in poi, tutto era successo in fretta. L'arrivo di mio padre, la sua disperazione, le sue mani nei capelli. I bagagli, i punti interrogativi, le veloci spiegazioni degli uomini del CSS (il Corpo Speciale dello Stato). Nel pieno di quella frenesia, non mi era stato facile capire appieno il motivo della nostra partenza immediata. Avevo però appreso che un terribile nuovo ceppo virale si era abbattuto sull'Italia centrale, e che molti avevano perso la vita. A breve, dicevano, l'area di azione si sarebbe estesa a tutto il Paese, poi all'Europa e infine, con ogni probabilità, al mondo intero.

Eravamo usciti un'ultima volta dal nostro podere e ci eravamo voltati a guardarlo: la grande facciata, completa delle tavole di legno giallo e dei battenti intonacati di blu, appariva imperturbabile, quasi fosse indifferente al nostro esodo. Io le porgevo silenziosamente il mio ultimo saluto, cercando di fotografare con la memoria quanti più dettagli possibili. Sentivo la valigia pesarmi nella mano, ma un fardello di portata decisamente maggiore si impadroniva al tempo stesso del mio stomaco, schiacciandomi a terra.

Ci avevano fatti salire su un veicolo a otto posti, dove altri passeggeri attendevano il nostro arrivo; tutti indossavano una maschera antigas.

Nel momento stesso in cui avevo sentito il borbottio del motore acceso, mi ero voltato a scrutare il paesaggio attraverso il lunotto posteriore. La mia casa era proprio lì, a pochi metri di distanza: si stagliava immobile tra le altre ville di campagna e contrastava con il grano tutto intorno, che ondeggiava al frusciare del vento. Pochi attimi dopo, non si trattava che di un punto colorato in lontananza; ai fianchi del minibus, la strada correva veloce e i suoi margini si confondevano con l'oro dei campi.

Mi ero svegliato molti chilometri più tardi, inconsapevole perfino di aver dormito. Eravamo in aeroporto. Allora andiamo davvero nel Midwest, avevo pensato.

Poche ore dopo avevamo raggiunto gli Stati Uniti, dove un altro minibus, identico al primo, aveva completato quello che a quanto pare era il nostro tragitto verso casa. Ma, a dire il vero, la nostra destinazione non aveva affatto l'aspetto di casa.

Davanti agli occhi mi si era parato lo spettacolo più surreale che si potesse immaginare. Un'estesa pianura verdeggiante si apriva di fronte a noi; fatta eccezione per il Mississippi, che la delimitava ad est, i suoi confini erano impossibili da distinguere. Il nostro veicolo, accodato a una serie di altri veicoli analoghi, procedeva a passo d'uomo lungo un'ampia strada sterrata che serpeggiava tra edifici di dimensioni ciclopiche. Ma non si trattava di edifici comuni: erano enormi cupole di vetro.

Ora, io sono fermamente convinto che tutte le parole siano sottoposte a un'inevitabile interpretazione soggettiva. È per questo che, nel caso di molti, il termine "enormi" susciterà l'immagine di una coppia di elefanti, mentre altri lo assoceranno ai grattacieli newyorkesi ed altri ancora a un imponente transatlantico. Ognuno di questi parallelismi, comunque, risulterà del tutto riduttivo: le cupole di cui sto parlando erano in grado di contenere intere città.

Solo in seguito avrei scoperto che quello era il loro preciso scopo.

Il nostro viaggio si era concluso di fronte a una massiccia saracinesca, alta una ventina di metri, sulla quale era dipinta a caratteri cubitali la sigla "i - 125". Al nostro arrivo, la saracinesca aveva iniziato a sollevarsi lentamente.

Ci avevano fatti scendere dal minibus e procedere a piedi. Quattro uomini del CSS si stagliavano contro l'ingresso della cupola e impartivano ordini che non riuscivo a decifrare, data la considerevole distanza tra noi e loro. Una gran folla di persone procedeva nella nostra stessa direzione, dividendosi, più avanti, in quattro file relativamente ordinate.

I miei genitori ed io avevamo scelto una fila. Una volta raggiunto l'ingresso, uno dei quattro uomini ci aveva puntato addosso quello che aveva l'aria di essere un termometro a scansione. Dopodiché ci aveva fatto segno di procedere dentro, e una spiacevole sensazione si era subito impadronita di me: eravamo ragni intrappolati in un bicchiere.

Dopo pochi istanti, una donna alta e sorridente ci aveva affiancati. Portava la divisa del CSS, ma nessun casco; il suo viso era giovane e raggiante, i capelli biondi raccolti sulla testa. Ci aveva invitati a liberarci delle maschere, poi si era offerta di guidarci attraverso i - 125 fino alla nostra nuova casa.

La Cupola, all'interno, sembrava un enorme villaggio turistico, o un'enorme favela. Ovunque intorno a noi si ergevano fatiscenti baracche di lamiera, ciascuna delle quali era circondata da un modesto ritaglio di prato. Alcune erano dotate di verande improvvisate, altre esibivano vasi pieni di fiori, nel vano tentativo di addolcire il proprio aspetto. Di tanto in tanto, qualcuno faceva capolino dai precari ingressi e si occupava di stendere al sole il bucato, servendosi di un cavo che attraversava il "giardino" da parte a parte.

Le varie abitazioni erano collegate da una fitta rete di viali. Percorrendoli, scorgevo capannelli di ragazzi che fumavano, biciclette che sfrecciavano con un sibilo, bambini che giocavano a raccogliere i ciottoli da terra. Ma la mia attenzione era costantemente richiamata verso l'alto, dove il luccichio del sole era reso come surreale dal vetro che si frapponeva tra noi e il cielo azzurro di marzo.

Infine, eccola lì. La nostra nuova vita.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Aug 31, 2020 ⏰

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