Capitolo 7 - È la sofferenza a produrre la bellezza

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La mattina dopo, a scuola, me ne stetti per tutto il tempo con la testa tra le nuvole. A pranzo le mie amiche non riuscivano a capire che cosa avessi, ma evitarono di punzecchiarmi come facevano di solito.

Mia sorella Margot, invece, rideva e scherzava rivolgendomi la sua dose di battutine quotidiane. Quando le lanciavo occhiatacce eloquenti per farla smettere, le sue frecciate mi facevano saltare sulla sedia dalla sorpresa.

«Ti prego, Sophie, con quella faccia sembri un mostro!» esclamava.

Oppure era ancora più esplicita: «Per favore, non ringhiare come una mannara

E ogni volta avvertivo la rabbia fare capolino e grattarmi lo stomaco con unghioni affilati. Se avesse continuato a provocarmi avrei potuto reagire molto male.

«Smettila» le intimai per l'ennesima volta mentre cercavo di finire di mangiare. Eravamo immerse nel chiacchiericcio di Sélène e Louise, per fortuna del tutto indifferenti ai nostri piccoli battibecchi tra sorelle.

Margot puntò le mani sul tavolo, poi si sporse un po' in avanti scoprendo leggermente i denti. «Altrimenti che fai? Mi salti alla gola per squarciarmi la giugulare?»

La guardai un istante sentendo una grande calma dentro di me. Mi parve che intorno al mio corpo d'un tratto tutto tacesse, che il bianco accecante della neve che fuori si stava sciogliendo invadesse la sala come una slavina.

Versipellis.

Con gli occhi che le brillavano, mia madre mi aveva detto che era tale parola a definire la mia natura, diversa da quella di ogni altro lupo.

Una parola latina che conoscevamo bene ma, pur essendo noi discendenti delle razze europee, usavamo poco. Anticamente era stata tra le prime usate nel vecchio continente per identificare gli uomini che si tramutavano in lupi. In seno alle diverse nazioni era stata poi sostituita da lupus hominarius, werewolf, loup-garou... ed era finita nel dimenticatoio, anche se non del tutto.

Con il passare del tempo, per definire i membri della nostra comunità avevamo scelto di usare semplicemente la parola "lupo". In questo modo speravamo di discostarci dalle credenze popolari che ci avevano trasformati, anche grazie agli scritti dei padri della Chiesa S. Agostino e S. Tommaso d'Aquino, in creature demoniache.

Quando era proprio necessario per evitare di generare confusione, utilizzavamo l'espressione lupus hominarius distinguendo i membri della nostra specie dai lupi naturali.

Ma la parola versipellis in qualche modo era sopravvissuta all'oblio dei secoli, finendo per designare ciò che suonava alle mie orecchie come la più spaventosa delle maledizioni: essere una muta-pelle, un'ingannatrice, non una mente umana in un corpo di lupo, ma l'anima di un lupo in un corpo di donna.

Una mannara, come mi aveva chiamato mia sorella. Una di quelle orrende creature ibride tra uomo e canide che si vedevano in certi film di cui spesso avevo riso con Sélène e Louise.

Di fronte alla disperazione che rischiava di travolgermi, mia madre, la dolce ma autorevole Céline Richard, aveva cercato di rassicurarmi. Mi aveva spiegato che i versipellis erano creature in grado di controllare il cambiamento di ogni singola parte del corpo, superando ogni altro essere in forza fisica e in intelligenza. Se la sorte era così generosa da farti nascere con un simile dono, be', allora bisognava custodirlo con cura, celarlo come una perla all'interno dell'ostrica.

«Fa' in modo che nessuno venga mai a sapere chi sei realmente» mi aveva sussurrato, accarezzandomi i capelli.

«Se i versipellis sono creature così piene di doti, perché dovrebbero nascondersi?» era stata la mia replica.

Wolf Lineage - Stirpe di LupoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora