Dublin

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Arrivai all'aeroporto di Dublino dopo uno scalo a New York e dodici ore complessive di volo, trascorse a leggere e a cercare di immaginare cosa avrei potuto fare una volta arrivato.

Ero già stato in Europa ma mai in Irlanda: non sapevo dove sarei andato, cosa avrei cercato, a chi mi sarei rivolto.
E non avevo nemmeno così tanti soldi. Ne avevo presi giusto per sopravvivere i primi giorni, dal momento che non avevo intenzione di vivere sulle spalle dei miei anche a chilometri di distanza.
Soprattutto non dopo essere scappato in quel modo.

Mi chiesi se si fossero già accorti della mia assenza... magari non trovandomi avrebbero pensato che fossi uscito da casa in anticipo per andare a studiare all'università. Non sarebbe stata la prima volta, dopotutto.

Quando sbarcai dall'aereo pioveva. Avevo letto che in quel paese la pioggia era all'ordine del giorno e avrei dovuto farci l'abitudine.
Attesi accanto ai nastri trasportatori che arrivasse il mio zaino, dopodiché decisi di uscire subito, per immergersi il prima possibile nel folklore di quella terra così particolare, a detta di tutte le guide.

Mi informai su quale bus prendere per arrivare vicino al centro e dopo circa mezz'ora mi trovavo davanti a un ponte, il Samuel Beckett Bridge.
Una struttura immensa, bianca e candida come le nuvole sopra la mia testa in quel momento.
La sua forma ricordava quella di un'arpa celtica e quasi senza pensarci avevo già tirato fuori il blocco da disegno e ne stavo facendo uno schizzo a matita, immediatamente bagnato dalle fini gocce di pioggia nordica.

Una volta finito attraversai il ponte, lentamente, guardando a destra e a sinistra per godermi la vista sul fiume Liffey.
C'erano persone che camminavano in entrambe le direzioni, persone di tutti i tipi: lavoratori, studenti, turisti. E c'era una cosa che distingueva quelle persone da tutte quelle che avevo incontrato finora in qualsiasi altra città: chiunque, lì, sorrideva.
Chi meno, chi più. Chi da solo, chi in compagnia. Chi osservandosi le scarpe, chi guardando per aria.
E, come fosse una cosa contagiosa, senza che potessi farci nulla anche io iniziai a sorridere.
Ero felice di aver fatto per una volta di testa mia, ero stato un po' drastico forse, ma non me ne ero ancora pentito.

Arrivai alla sponda opposta del ponte e continuai a camminare in direzione di quello che in lontananza sembrava essere il centro.
Scoprii di non sbagliarmi quando mi trovai davanti a un cartello che indicava "Trinity College Dublin", fulcro del centro turistico e culturale della città.

Entrai in un pub, ispirato dall'insegna in legno appesa sopra la porta, stanco della pioggia e curioso di assaggiare la birra locale, una certa Guinness.
Non ne avevo mai sentito parlare prima, ma era decantata su ogni guida e sito internet per il sapore particolare e il colore caratteristico: dalle foto sembrava infatti che fosse nera, tonalità del tutto insolita per una birra.
Non fidandomi granché delle foto, decisi di provare di persona.

Era quasi l'ora di cena quando mi sedetti su uno sgabello dalla trapunta di velluto rosso rovinata dall'usura. Il bancone era di legno, leggermente appiccicaticcio, e in quel momento vi si trovavano dietro due ragazzi, all'apparenza molto giovani e a dir poco chiacchieroni.
Stavano infatti intrattenendo tre signori dalle guance e il naso paonazzo con battute simpatiche ma un po' scontate che però sortivano un certo effetto su quegli individui.

Uno dei due si accorse finalmente della mia presenza e mi si avvicinò, posando sulla spalla destra lo strofinaccio che fino a quel momento aveva utilizzato per asciugare i bicchieri di vetro.

- Buonasera, amico! Cosa posso portarti? - mi chiese sorridendo, con un inglese del tutto differente dal mio per cui trattenni a stento un risolino.

- Una Guinness, per favore - risposi, sfilandomi la giacca che avevo addosso, ormai zuppa, e appoggiandola sullo sgabello vuoto accanto al mio.

- Arriva in un attimo! -

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