1. Fantasma

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Tra di loro non c'era mai stato niente, ma Mark sente ancora la presenza di Donghyuck aleggiare intorno a sé.
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Mark



Ci misi più del necessario per capire che per tutto quel tempo ero stato solo un tuo amante. Che eri un traditore. Che io ero la puttana con la quale spendevi la notte quando Renjun non era in vena di farlo. Che le tue mani, che tante volte avevano stretto le mie, stringevamo anche quelle di Renjun. Che, in definitiva, tra noi non c'era mai stato niente.

Tra noi non c'era mai stato niente. Tutte quelle notti passate a baciarti segretamente i capelli mentre tu fremevi ad ogni lampo, e a sussurrarti che ti amavo – per dirtelo ad alta voce volevo aspettare ancora un po' – erano state uno spreco di tempo.



Era tutto stato uno spreco di tempo. E io ero stato per tutto quel tempo quello sbagliato, la scopata segreta che ti facevi quando volevi cambiare aria.



Quella notte riprendesti il tuo cappotto e uscisti, senza dirmi nient'altro. Anche quella sera rimasi da solo come ero rimasto da solo ogni mattina alla tua partenza. Ero così abituato al vederti andare via che sul momento non mi venne nemmeno da piangere.

Le lacrime iniziarono a scendere solo qualche minuto dopo, quando ebbi finalmente chiara la situazione.

"È tutto finito," pensai sul momento, per poi constatare ancor più dolorosamente che quel tutto non era mai iniziato. Era tutto stato sempre e solo nella mia testa.



Sentivo ancora la tua presenza aleggiare intorno a me, come se le tue mani mi stessero ancora accarezzando i fianchi togliendomi la maglietta, e le tue labbra stessero ancora cercando le mie nella calda penombra del mio appartamento. Tutte le stanze erano impregnate di nostri ricordi – o forse ora erano solo miei ricordi?

Era rimasto il tuo profumo sul materasso, una presenza quasi tracotante, il ricordo di me e te stretti nella mia doccia e l'odore del caffè che preparavo al mattino quando tu eri già andato, mentre pensavo a te e me in modo sognante guardando il piccolo parco fuori dalla mia finestra.


Ero costantemente infestato dal tuo fantasma.






Passò un giorno. Il giorno dopo ancora ebbi la forza di tirar fuori dal congelatore un chilo di gelato – quello che si compra al supermercato, e che non è nemmeno buono – e mangiarlo a cucchiaiate guardando Sen To Chihiro No Kamikakushi, La città incantata alla TV, e piangendo.

Volevo sparire.



Il terzo giorno resuscitai secondo le scritture. Presi tutto il mio coraggio e uscii di casa. Pensai che forse non tutto era perduto: appartenevi al passato – anzi, non eri mai stato più che una comparsa nella mia vita, decisi. Mettere in pratica un pensiero così, però, è più difficile di quanto sembra – o almeno, così fu per me.

L'aria di novembre era gelida, e il vento mi penetrava fin nelle ossa mentre io, tremando, mi trascinavo in giro per una Seoul che sembrava aver perso in quei due giorni tutta la sua caratteristica vitalità. Cercai di concentrarmi il più possibile in qualsiasi insignificante dettaglio che non mi riportasse con la mente a te.

Fu più complicato del previsto.



Sedetti su una panchina in un parco lontano da quello davanti a casa. Volevo cambiare aria. I bambini che ci giocavano erano bambini diversi da quelli che vedevo di solito, e anche le madri stesse lo erano, ma si assomigliavano troppo nei comportamenti per non darmi una strana aria di nostalgia.

Mi sembrava come di essere rimasto morto per una generazione, e di essermi risvegliato da poco per poter ritornare nei luoghi della mia vitalità. Di star ora guardando i bambini che vedevo ogni giorno fare da genitori, e i loro figli giocare al loro posto.

Mi sembrava, in definitiva, tutto stranamente sbagliato.




Una ragazza si sedette accanto a me nella panchina incrociando le gambe, e fece un cenno alla bambina che accompagnava — forse la sorella? la ragazza era troppo giovane per essere una madre — di andare a giocare con i suoi amici.

Sorrise verso di me. «Anche tu accompagni tuo fratello o tua sorella qui?» mi chiese, lenta e cauta, per iniziare una conversazione.

«Non proprio. Sono qui più che altro per dimenticare,» risposi, decidendo di essere sincero.




«Hai nostalgia di essere bambino? Sai, ogni tanto la nostalgia prende anche me,» disse. Parlava tranquilla, ma riusciva allo stesso modo a trasmettere una strana tristezza melanconica. «È strano, ma è come se l'infanzia fosse durata così poco che non siamo giunti preparati alla maggiore età, e abbiamo commesso un sacco di errori idioti.»

«Tipo innamorarsi,» dissi io, mentre lei diceva solo: «Tipo...» e poi sembrava subito pentirsene.

Avevo intuito più del necessario. «Non è tua sorella, ma tua figlia, vero? La bambina.»

«Minjeong,» mi corresse sul nome. «Sì. È mia figlia.»



«Posso...» dissi cautamente. «Quanti anni hai?»

Lei distolse lo sguardo. «Ventuno,» rispose. Aveva un anno più di me. «Minnie ne ha quattro. L'ho avuta quando avevo diciassette anni.»

«Cazzo,» sussurrai.

«Non importa,» si sforzò di sorridere. «Almeno quando sarà alle superiori non potrà lamentarsi di avere una mamma della generazione precedente che non la capisce,» il suo era un sorriso triste. «È... è una cosa positiva, vero?»

«Forse,» risposi, decidendo di non mentirle.



Ci fu qualche attimo di silenzio. «E tu?» mi sorrise lei dopo un po'.

«Io... diciamo che sono appena uscito da una relazione tossica, tanto tossica che a quanto pare non era nemmeno una relazione.»

Lei non sapeva esattamente che cosa dire – nemmeno io l'avrei saputo, nella sua situazione. «Mi dispiace.»




Per qualche istante guardammo solo Minjeong giocare a palle di neve con i suoi amici, emanando urletti felici e risate di tanto in tanto.

«Il problema è che lo amo ancora,» continuai all'improvviso, senza nemmeno pensarci. «O forse che semplicemente l'ho amato per tutto questo tempo, mentre per lui ero solo un passatempo.»



Lei non sembrò notare che avevo usato il pronome maschile, o forse semplicemente non disse niente.
«Le persone a volte sembrano non accorgersi dei nostri sentimenti, vero?» disse. «Ma in realtà, o almeno secondo me, se ne accorgono. Se ne accorgono sempre, del fatto che ci stanno facendo male, o che ci fanno sentire bene. Ma spesso decidono di non voler accorgersene. Forse anche lui...»

Le sue parole sembrarono morire lì. «Non lo so,» ammisi io.

«...Forse anche lui aveva paura di essere ferito,» finì finalmente lei.


Anche tu avevi paura di essere ferito?

































© stellapiena

preparatevi perché penso proprio che cambierò tutti i nomi, questa penso sarà l'ultima volta in cui avrete l'occasione i leggerla con questi. 

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