DESTROYED 3' Capitolo "Wilmot Nest"

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Erano le tre e un quarto quando mi resi conto che quella notte non sarei riuscita a chiudere occhio. Il mio appartamento era buio, c'era troppo silenzio, per riuscire a dormire.

Avrei preferito ascoltare le gocce d'acqua che cadevano da uno dei rubinetti, magari ogni tanto: mi avrebbe dato una strana consolazione, l'illusione di non essere sola.

Di solito, quando la notte non riuscivo a dormire, passavo ore a psicanalizzarmi, come ogni buon psicologo che si rispetti.

La mia vita mi appariva come una lunga sequenza di eventi ai quali io non avevo partecipato, come se stessi osservando l'esistenza di qualcun altro.

Più che un disturbo dissociativo dell'identità, pensavo a Jung, e al suo concetto di ombra; c'era un lato oscuro dentro di me, che non ero mai riuscita a capire, né a inquadrare.

Tutto era accaduto dopo che avevo tentato il suicidio, quando ero ancora una ragazzina debole e impaurita. Adesso ero cresciuta, ma a volte era come se mi ritrovassi ancora dentro quel bagno, con una lametta fra le dita tremanti.

Molte volte, dopo la psicoterapia, mi ero chiesta come avevo potuto fare una cosa del genere con una tale freddezza.

Tentare di uccidermi.

Le sensazioni di quel giorno erano ancora nitide dentro di me.

La certezza che non ci sia nessuna via d'uscita, se non la morte, per mettere fine alla sofferenza. Potevo ingannare Zane e i miei genitori, ma in realtà tornare a Wilmot Nest mi provocava parecchia ansia.

L'unico modo per capire se ero davvero guarita, era ritornare in quel sepolcro dalle mura bianche. Solo dopo esserci entrata, avrei capito se mi ero lasciata tutto alle spalle.

Quello che era successo dopo il mio tentato suicidio era confuso.

Avevo rimosso quasi tutto. Ed era un bene. La rimozione dei pensieri negativi è una manna dal cielo, sia benedetto l'inconscio e le sue scatoline chiuse, dove puoi metterci tutto quello che ti fa male, per dimenticarlo.

Anche se dopo hai crisi d'ansia e attacchi di panico.

Mi sollevai sui cuscini del mio letto e senza volerlo, aprii il cassetto del comodino. Per un attimo rimasi immobile a guardare quegli ansiolitici, nel flacone di plastica che conoscevo così bene.

Avevo smesso di prenderli quando ero entrata alla Johns Hopkins University. Li tenevo ancora.

Erano un'ancora di salvezza in casi estremi, ma fino a quel momento non ne avevo ancora presi. Sapere che erano lì, nel mio cassetto, mi consolava.

Presi il flacone in mano e lo rigirai. Forse avrei dovuto prenderne uno. Solo uno. Per dormire.

«No» dissi ad alta voce, drastica.

Non ci sarei più ricascata, ero riuscita a guarire senza pillole, avevo dimenticato tutto, adesso ero una persona diversa e avrei affrontato le mie paure in modo maturo e lucido, senza scappatoie.

Sospirai e rimisi gli ansiolitici nel cassetto. Poggiai la testa sul cuscino e chiusi le palpebre.

Il sonno mi colse dopo mezz'ora, assieme ai sogni.

Tra le nebbie, vidi qualcuno sopra di me, un volto maschile che non avevo mai visto, o che almeno, non ricordavo di aver mai visto. Anche se era familiare.

Un corpo mi schiacciava, premeva contro di me, tenendomi le braccia incollate sopra la testa, mentre ero a terra. Ogni volta che facevo quel sogno, si arricchiva di nuovi particolari.

Adesso percepivo l'erba, eravamo in un prato. Il ragazzo, molto giovane, ansimava sopra di me. Le sue mani continuavano a toccarmi.

Provavo a spingerlo via, ma non ci riuscivo.

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