La seguivo spesso alle macchinette del caffè e aspettavo restassimo sole, anche se alla fin fine le nostre conversazioni erano più o meno tutte uguali.
Le sorridevo. «Salve, prof!»
Alzata di sopracciglio e sorriso da parte sua. «Oh, ciao.»
«Tutto bene?»
L'imbarazzo era onnipresente, ma il mio "Tutto bene?" non era un "Come sta?". Era più amichevole.
«Sì, dai. Si va avanti.»
Alzata di sopracciglio, un'altra volta. Era un suo vizio che amavo.
Mi chiedeva dei miei programmi per il fine settimana e della mia famiglia, ma io non osavo chiedere della sua, sperando sempre che non l'avesse, e appena la conversazione era in procinto di terminare, le offrivo un caffè.
«Linda, non c'è bisogno!»
«Invece sì. Ho voglia di offrirle un caffè. Posso?»
Ale alzava gli occhi al cielo e cedeva. Poi mi accarezzava una spalla e cedevo io.
«Quanto zucchero?»
«Due tacche credo bastino.»
Una di quelle volte aggiunse: «Come vanno i tuoi compagni nelle altre materie?»
Era molto raro che domandasse di loro e ciò ovviamente alimentò le mie paranoie: lo aveva fatto perché non aveva voglia di parlare con me?
«Non le piacciamo come classe, non è così?»
«Non sopporto la tua classe, poco ma sicuro. Non è possibile che abbiate spostato una verifica per quattro volte. Penso che possiate ottenere il primo premio per i migliori procrastinatori dell'anno.»
Ogni volta che parlava al plurale mi maledicevo perché sembrava avessi toccato chissà quale tasto dolente per farle cambiare umore. Invece no, ero costretta a restare sulla Terra, perché quello era il suo lavoro.
«Mi dispiace di non essere riuscita a far ottenere una buona fama alla mia classe.» La buttai sul vittimismo e, Dio, funzionò alla grande.
«Sai bene che sei esclusa da ciò che dico. Sai che sono contenta dell'impegno che mostri ogni giorno.»
Così le paranoie sfumarono. Avevo vinto le elezioni per il ruolo di rappresentante di classe e ogni volta sentivo il doppio del peso delle critiche dei docenti. Ale lo sapeva bene: anche lei era rappresentante dei professori e ne sopportava forse un quarto.
«Grazie, prof, ma la smetta di essere così gentile con me, perché divento un peperone!»
All'inizio dell'anno Ale si limitava a ridacchiare e dopo un po' si stancava della mia onnipresenza, ma quella volta mi portò un braccio dietro una spalla tirandomi a sé. Iniziai letteralmente a tremare. Con poca confidenza le sorrisi, imbarazzata, e l'abbracciai anche io cercando di fare pressione sui suoi vestiti per sentirne il calore. La sfiorai per la prima volta, la mia ghiacciolina.
Si accorse dell'impaccio, del mio sguardo vacante che impauriva al solo pensiero di incrociare il suo. Infatti, dopo pochi secondi si allontanò di colpo. Altra fitta allo stomaco, la solita.
«Comunque, non si preoccupi. Anche io non sopporto la mia classe.»
Lo ripetevo spesso. Molti dei miei compagni facevano parte di quella categoria malefica di sfruttatori della gentilezza delle persone – generalmente quelle chiamate Linda Macedo avevano la precedenza – per trarre vantaggio nei compiti in classe.
«Ho notato che non siete molto uniti.»
«Per niente. Non m'interessa andare d'accordo con degli approfittatori. Dai, se n'è accorta anche lei. Non ha idea di quante belle parole le tirino dietro.» Il tono era saccente, ma che importava? Volevo solo la sua fiducia e quel braccio intorno alla spalla un'altra volta.
«Non hai di che preoccuparti: do tanto a chi merita. Sono disponibile per tutti, per tutti quelli che non se ne approfittano.»
«Mi sa che su questo aspetto siamo simili, allora.»
Mi sorrise e mi sfiorò di nuovo la spalla.
«Ci vediamo in giro.»
Tornò in classe.
Non fu un abbraccio, ma era comunque un inizio.
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Be my Serotonin
Teen FictionLinda frequenta l'Istituto Fermi ed è pronta ad affrontare la maturità con il suo spiccato animo sovversivo, quando entra nella sua vita Ale, la nuova docente di chimica. Un colpo di fulmine in piena regola, un amore che gli amici reputano platonico...