Capitolo 1: Fino a che punto si può sopportare?

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Ecco come decisi di trascorrere i miei ultimi giorni di vita.

Era un sabato mattina di novembre: avevo acquistato un biglietto di sola andata per Ivrea, località che ebbi modo di conoscere per essermi intrattenuto con un'indigena durante un periodo in cui ero all'apice delle mie capacità sociali.

Stanco e schifato da tutto, volevo almeno rivedere quella città la cui stazione fu premiata come una delle più belle d'Italia, magari fare due passi per il Naviglio e perdermi in quelle gelide acque.

Sapevo già i dettagli di quell'itinerario, quasi sette ore di treno e tre cambi. Se al termine del viaggio ci fosse stato qualcosa o qualcuno ad attendermi, forse avrei provato una certa agitazione, invece... calma piatta.

Ogni tanto alternavo lo sguardo tra la lettura di un libricino, l'ennesimo controllore che chiedeva il biglietto e le città che apparivano e scomparivano dal finestrino; così fino a Chivasso, ultima stazione di cambio.

Dopo essere salito sull'ultimo regionale, fu facile trovare uno scompartimento semideserto; in pratica eravamo io e un altro passeggero seduto all'estremità opposta, perfetto.

Il treno ripartì, potei rilassarmi osservando i paesaggi del Canavese e riportando alla memoria alcune specialità locali, come la misteriosa Torta 900 reperibile in qualche rinomata pasticceria, o una più rustica miassa con salignùn, peccato che in quel mese non vi fossero eventi o sagre.

Il viaggio procedette come tutte le altre volte, ormai ricordavo a memoria fermate e intoppi: Caluso, Candia, Strambino, l'infame rallentamento in prossimità del torrente Chiusella e la meta del mio peregrinare, o almeno era quel che credevo.

Il convoglio raggiunse Ivrea nell'orario prefissato; col consueto sfogo dell'aria compressa, l'elettromotrice abbassò il pantografo, la corsa era terminata.

Proprio quando decisi di alzarmi per prendere le mie cose e uscire, mi resi conto che non ero in grado di muovere un muscolo: all'improvviso divenne tutto opprimente, un'atmosfera di pura angoscia. Sembrava Milano Centrale alle quattro del mattino, ma non erano che le due e mezza del pomeriggio e fino a poco fa splendeva un tenue sole autunnale, che accidenti stava succedendo?

Io ero lì, immobile come un salame, osservavo l'uscita come se fosse una meta irraggiungibile, volevo andarmene ma non ci riuscivo, solo in quel momento capii perché dovevo rimanere incollato al sedile.

D'un tratto entrò lei, la donna più afrodisiaca del sistema solare; una visione talmente sconvolgente da farmi dimenticare quella bomba sexy che vidi vent'anni prima alla fermata della Circumvesuviana, roba che nemmeno il porno col cast più stellare poteva permettersi. Che ci faceva una così in un posto come quello su un treno del genere?

Mentre i dubbi affollavano la mia mente e le mutande cominciavano a stringere, quel distillato di assoluto erotismo avanzava in mia direzione: alta, tonica, straripante, perfetta, statuaria e imperscrutabile. Sembrava il prodotto della migliore ingegneria genetica, la donna assoluta, nessun maschio avrebbe potuto resisterle, ma ciò non le avrebbe reso giustizia, non poteva essere una bellezza di questo mondo, c'era molto altro in lei.

Non avrei mai potuto immaginare che espressione avesse, quelle sue labbra lucide e vellutate non tradivano la minima emozione e il suo sguardo era celato da impenetrabili occhiali che parevano più sottili visori ottici.

Muovendosi con sinuosa eleganza si avvicinò a me, l'ultimo dei reietti. Non so cos'avrei dato in quel momento per sentire la sua voce e incrociare gli sguardi, ma non fu così.

Clarent, il signore della fecciaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora