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Conoscevo quella strada come le mie tasche, anche se era ricoperta dal manto nevoso. Ogni albero che ne costeggiava il bordo, adesso rinsecchito dal freddo, era impresso a fuoco nella mia mente, perciò non ebbi difficoltà nel proseguire e in meno di tre ore mi ritrovai davanti a un'apertura naturale, creata dai rami nodosi e nudi di due grandi querce rosse, solitamente conosciuta come l'entrata della Grande Foresta. Varcai quell'ingresso innevato e mi addentrai tra la rete di faggi e aceri spogli.
Nella bella stagione era quasi impossibile riuscire a trovare l'orientamento, le fronde erano talmente fitte da nascondere i numerosi sentieri che si snodavano all'interno della foresta. Durante l'inverno, invece, diventava molto più semplice, se si escludevano, però, il gelo pungente e perpetuo, la neve alta, che impediva quasi del tutto gli spostamenti, e gli animali predatori, come i lupi, resi più spietati dai morsi della fame.
Mi guardai intorno e, osservando i tronchi degli alberi, mi avvicinai a quello più vicino e notai dei piccoli tagli che formavano un cerchio. Era il simbolo che avevo intagliato per indicare il sentiero che avrei dovuto percorrere. Superato quello, vidi immediatamente un altro cerchio. Iniziai, così, a seguire i vari segni incisi sulle cortecce rugose di quegli arbusti, percorrendo il viale che sapevo mi avrebbe condotta al mio personale nascondiglio, una prima fila sulla maestosa grandezza della selva, riservata esclusivamente a me. Gli unici suoni che accompagnavano la mia camminata erano il calpestio costante dei miei stivali sulla neve fresca e i canti lievi e assonnati degli uccelli che si stavano risvegliando alle prime luci di quella gelida mattinata. Mi persi ad ascoltare quei cinguettii, cercando di pensare il meno possibile al freddo che si insinuava sotto i miei vestiti.
Quando giunsi alle pendici di un piccolo colle, mi fermai. Mi sorpresi di non avere il fiatone dopo aver camminato in mezzo a quella moltitudine di neve, sgambettando e barcollando. Probabilmente ero più allenata di quanto pensassi. I piedi e le mani, al contrario, erano intorpiditi all'inverosimile, perciò mi diedi una mossa. Non avevo alcuna intenzione di diventare una statua di ghiaccio. Marciai, quindi, sull'altura che si parava di fronte a me, sulla quale si intravedeva un grande ammasso roccioso.
Arrivata in cima, inspirai e l'aria di quella gelida metà mattinata mi pizzicò il naso, per poi riempire i miei polmoni svuotati. Aveva smesso di nevicare, ma le nuvole non accennavano a diradarsi, perciò constatai che il sole non avrebbe fatto la sua comparsa per il resto della giornata.
La sommità della collina era spoglia. Lì, le latifoglie, che, solitamente, ricoprivano gran parte della Grande Foresta, non erano cresciute. Dall'abbondante quantità di neve fresca spuntava solamente un alto macigno roccioso, la cui parte superiore sporgeva in avanti, formando un riparo. Avevo scovato quel piccolo rifugio qualche mese addietro durante una delle mie noiose battute di caccia. Non ci pensai due volte a precipitarmi, come un lampo, in quello spazio stretto e umido. Le dita dei miei piedi erano intirizzite come non mai, mi facevano persino male. Scossa dai tremori del freddo, mi strinsi nelle braccia, strofinandole più volte. Mi sfilai, poi, l'arco e la faretra, appoggiandoli a una parete rocciosa. Scrutando il pavimento del riparo, mi misi, poi, alla ricerca dei rimasugli di qualche ramoscello per poter accendere un fuoco. Cinque rametti spezzati fu tutto ciò che riuscii a trovare. Li gettai al centro della stanza, sistemandoli, poi, per formare una minuscola pira. Mi accovacciai a terra e allungai una mano per prendere il fuscello che avevo tenuto da parte. Stringendolo tra le mani, cominciai a farlo ruotare con forza sopra un altro pezzetto di legno. Ruotando e spingendo, avvampò piano una piccola brace. Continuai a soffiarci delicatamente sopra, fino a quando non si creò una fiamma. Andai sùbito incontro al piccolo fuoco, sospirando e ringraziando per quel poco, ma confortevole calore. Mi tolsi gli stivali e appoggiai al suolo la mia sciarpa di lana, sulla quale mi sdraiai. Tutte le terminazioni del mio corpo ringraziarono in coro per quel tepore che si stava spandendo nel minuto riparo. Non appena toccai il morbido tessuto della sciarpa con la testa, i miei occhi non faticarono a chiudersi.
Mi svegliai solamente quando del falò non fu rimasto altro che fumo e cenere. Sbirciai fuori: la neve, che si era accumulata sopra il riparo roccioso, ora si stava sciogliendo, formando delle goccioline d'acqua che, a ritmo costante, continuavano a cadere dal bordo, finendo proprio davanti all'entrata. Sperai non si formasse del ghiaccio. Non volevo finire quella giornata con una frattura all'osso sacro.
Anche la luce era cambiata, doveva essere quasi mezzodì e, quindi, era arrivata l'ora di alzarsi.
Mi stropicciai il viso, mi stiracchiai e, infine, mi sollevai da terra. Mi girai e raccolsi la mia calda sciarpa, sbattendola per togliere alcune schegge. Dopo averla riavvolta attorno al collo, infilai anche gli stivali, riposizionando il pugnale in quello destro.
Non avevo molta fame, ma in compenso stavo morendo di sete. Stupidamente non avevo portato nulla con me, se non le armi che, per ovvie ragioni, non avrei usato. Mi spostai, quindi, verso l'uscita, evitando di inzuppare i piedi in una delle pozzanghere formate dalla continua discesa delle gocce d'acqua. Una volta fuori, mi posizionai al lato sinistro del riparo, dove non si era formata ancora alcuna pozza, quindi, avvicinandomi al bordo, lasciai cadere alcune gocce tra le mie mani e bevvi qualche sorso. L'acqua era freddissima, perciò, dopo essermi dissetata, misi nuovamente i guanti e sfregai le mani per ricevere un po' di calore. Rientrai, poi, dentro il rifugio e andai a sedermi a ridosso di un muro. Avevo ancora del tempo prima di tornare a casa, quindi sbottonai di poco il mio pesante giaccone in pelle e da una tasca interna estrassi un libretto. La forte luce bianca che filtrava dall'ingresso mise in risalto la copertina cremisi, decorata con elaborate ed eleganti lettere color ocra che ne componevano il titolo: Racconti dell'Oltre Terra. Si trattava di una piccola raccolta di brani che narravano le storie di creature mitiche, che vivevano in una terra lontana e magica. Mia nonna me le leggeva sempre la sera, prima di andare a dormire, quando ero una bambina. Nonostante fossero passati ormai diversi anni, non mi dispiaceva trovare  ancora qualche momento per leggere qualcuna di quelle favole. In qualche modo mi ci ero affezionata e, anche se erano solamente il frutto dalla fervida immaginazione di chissà chi, grazie a esse potevo provare quelle emozioni, come l'audacia e l'eccitazione, che il mondo reale, purtroppo, non era in grado di farmi sentire. Aprii, così, il volumetto, sfogliandolo fino a recuperare la pagina con la pieghetta in alto a destra. Mi immersi nella lettura e, come succedeva sempre, mi estraniai completamente da ogni cosa che mi circondava.
Non seppi se fu a causa della mia fantasia o altro, ma improvvisamente alle mie orecchie arrivò un rumore fin troppo forte, fin troppo vero. Ed era sorprendentemente vicino. Chiusi di scatto il piccolo libro, appoggiandolo vicino all'arco, e, contemporaneamente, girai la testa verso l'ingresso del riparo. Veloce come la luce, sfilai il pugnale nascosto nel mio stivale e con l'agilità appresa durante il mio servizio di Guardia Argentea, mi alzai in piedi, sgusciando silenziosamente attraverso la stanza rocciosa. Arrivata davanti all'entrata, mi appiattii alla parete e acuii l'udito, cercando di recepire un altro suono simile a quello precedente. Rimasi in quella posizione per qualche minuto, ma non avvertendo niente, decisi di allungarmi in avanti per controllare. Voltai, quindi, la testa, la lunga treccia corvina che scivolò sulla mia spalla. Il mio sguardo sfrecciò in varie direzioni e, alla fine, non scorgendo nulla di preoccupante lì nei dintorni, uscii con tutto il resto del corpo. Con la mia mano destra impugnavo saldamente il coltello affilato, mentre avevo portato l'altra alla fronte per ripararmi gli occhi da quella maledetta luce bianca così abbagliante. Battei più volte le palpebre per mettere a fuoco il paesaggio circostante, cercando di individuare la fonte di quel rumore. Spinsi, perciò, la mia vista fin dove potevo. Osservai la macchia sempreverde costituita da alte conifere in lontananza, verso nord, per poi vagare con lo sguardo fino al lato opposto della collina sulla quale mi trovavo, dove un fiumiciattolo sfociava in un laghetto dai bordi semi ghiacciati, incorniciato da betulle avvizzite per via del clima gelido. Ogni cosa, sulla quale posavo i miei occhi, sembrava assolutamente non avere nulla di strano. Tutto era al suo posto. Tutto continuava a essere sommerso dal silenzio della foresta e dalla candida neve.
Tirai un leggero sospiro di sollievo. Sarei potuta tornare a immergermi nella mia lettura ancora per qualche ora, fino a quando la fastidiosa luce bianca non si fosse affievolita. Mi girai, quindi, per rientrare nel riparo, ma nel fare quel movimento i miei occhi intercettarono una sagoma estranea e mi bloccai di colpo.
Un grande lupo dal manto grigio e bianco aveva appena svoltato l'angolo e ora mi stava venendo lentamente incontro, con taglienti zanne digrignanti in bella vista. Era a caccia e io ero appena diventata la sua preda.
Strinsi più forte il mio pugnale e alzai le braccia in posizione di difesa. L'animale si accorse del mio gesto e il suo ringhio divenne più violento. Aveva il pelo rizzato sulla schiena e i suoi occhi gialli erano annebbiati dalla fame. Si stava preparando a balzare su di me, per dilaniare e assaggiare le mie viscere, ma io non glielo avrei permesso.
Non volevo uccidere. Quello era l'intento con cui ero uscita di casa quella mattina, ma se non avessi avuto scelta, non mi sarei tirata indietro. Affondai i piedi nella neve, assumendo una posizione più stabile. Se mi avesse attaccato, gli avrei piantato il coltello nella pancia, sventrandolo. Il grosso lupo si tirò indietro, pronto per prendere la rincorsa e saltarmi addosso. Io mi accinsi allo scontro quando si udii un ululato. Il suono era distate, probabilmente proveniva dalla zona in cui crescevano le prime conifere. Il predatore smise immediatamente di ringhiare e raddrizzò le orecchie in ascolto. Un secondo ululato proferì nella quiete della Grande Foresta. La belva sembrò perdere totalmente interesse nei miei confronti e, all'improvviso, si lanciò in avanti, evitandomi all'ultimo secondo. Lo guardai correre giù dalla collinetta, alzando nuvolette di neve con le sue enormi zampe, finché non lo vidi sparire tra la folta distesa di abeti e pini.
Come alla fine di ogni sessione di allenamento, chiusi gli occhi e buttai fuori l'aria. Dopo aver riaperto le palpebre, mi sentii un po' più rilassata. Un po' più leggera. Rimisi il pugnale al suo posto e mi avvicinai all'entrata del rifugio roccioso. Mi mossi appena quando sentii il fruscio di alcuni passi sulla neve e degli schiamazzi. Si avvicinarono in fretta, radunandosi, infine, ai piedi della collina. Dal punto in cui mi trovavo non riuscivo a scorgere dei volti, ma non servì. Non appena i nuovi arrivati ripresero a parlare, capii sùbito di chi si trattava.
Erano Guardie, erano i miei compagni. E non andavamo per nulla d'accordo.

A Girl in the Deceptive CourtDove le storie prendono vita. Scoprilo ora