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La mia rilassante giornata stava procedendo piuttosto bene. Almeno fino a quel momento.
Dopo lo spiacevole incontro con quel lupo affamato, avevo tutta l'intenzione di continuare a starmene sdraiata a leggere nella piccola caverna, raggomitolata nella mia calda sciarpa, ma quel mio piano andò totalmente in fumo non appena vidi sopraggiungere quegli idioti dei miei compagni.
Tre ragazzi dalla corporatura robusta, chiusi in pesanti giacconi di pelliccia e pantaloni felpati, si erano raggruppati alle pendici della collina su cui mi trovavo. Ridevano e si spintonavano a vicenda, facendo un baccano assordante. Poi si dissero qualcosa, ma in un tono troppo basso perché io potessi capire. Acquattata sul bordo dell'altura, vidi che cominciarono a mettersi in cerchio, assumendo la posizione di difesa. Probabilmente volevano fare un po' di allenamento. Non finii quel pensiero che uno di loro, il più grosso, si lanciò su quello con i capelli castani tagliati a spazzola e una cicatrice sul naso. Quest'ultimo si scansò immediatamente, facendo finire quell'altro con la faccia in mezzo alla neve.
<<Sei davvero un cazzo di imbranato, Jarret.>> iniziò quello con la cicatrice, assalendo l'altro. <<Ricordami per quale motivo fai parte del corpo delle Guardie Argentee.>>
Jarret, dopo essersi rialzato e ripulito dalla neve, sembrò pensare a quella domanda, appoggiando anche un grosso dito sul mento, e alla fine espose semplicemente: <<Perché ho tanti muscoli.>>
Il terzo ragazzo fece un risolino, mentre quello che lo aveva insultato alzò gli occhi al cielo, per poi posarsi una mano sul viso e scuotere la testa in segno di negazione.
Solitamente non incontravo molta gente quando mi recavo nella Grande Foresta. Anzi, per la verità, non incontravo mai nessuno, perciò fu davvero molto strano imbattersi in quei tre imbecilli.
Quando si posizionarono per riprendere nuovamente a combattere, decisi che non avevo più voglia di restare a guardarli, non avevo più voglia di rimanere nella Grande Foresta. La mia giornata era stata rovinata dal loro arrivo, perciò, senza fare troppo rumore, mi alzai e andai a riprendere l'arco e la faretra che avevo lasciato dentro il riparo. Dopo essermi sistemata le armi addosso e aver perlustrato il pavimento roccioso per vedere se avessi scordato qualcosa, uscii dalla piccola caverna, ricordandomi di essere svelta e silenziosa. Non volevo assolutamente che quei tre si accorgessero di me.
Sorse, quindi, un problema: quel lato della collina, lo stesso dal quale ero salita e adesso occupato da quel trio, era scoperto. Non c'erano alberi che potevano mascherare il mio passaggio.
L'unica soluzione, perciò, era quella di aggirare quella zona, passando per il lato est. In quel modo avrei allungato il cammino, sì, ma avrei avuto una copertura. Speravo con tutta me stessa che nessuno di loro mi vedesse.
Così mi avviai, addentrandomi poi nel piccolo boschetto di aceri spogli che cresca sulla parte scoscesa di quel lato dell'altura.
Cercai di sbrigarmi e allo stesso tempo di fare il minimo rumore, rivolgendo ogni tanto lo sguardo verso quel gruppetto. Riuscivo a intravederli tra la rete di quei tronchi avvizziti, si trovavano ad almeno trecento metri dal punto in cui ero io. Erano lontani abbastanza da ignorarmi completamente.
Continuai, così, la mia discesa frettolosa, facendo attenzione ai rami bassi degli arbusti che spesso si impigliavano nei capelli e graffiavano la faccia. La neve, invece, era diventata un ostacolo davvero fastidioso. Era troppo alta e a mala pena riuscivo a vedere dove mettevo i piedi. Avevo già rischiato di scivolare almeno quattro volte.
In quel momento decisi di voltare la testa per dare un'altra sbirciata a quel trio. Mi pentii sùbito di quel gesto. Il mio piede, all'improvviso, urtò contro un sasso e inciampai malamente, balzando in avanti. Inaspettatamente mi sfuggii un urlo e cominciai a ruzzolare giù per l'ultimo tratto della collina. La mia caduta si fermò solamente quando atterrai violentemente ai piedi dell'altura, emettendo un secondo urlo, più soffocato rispetto al primo. Il tappeto nevoso, per fortuna, aveva attutito ogni mia giravolta, risparmiandomi ulteriori dolori e lividi.
Mi alzai sulle braccia quel tanto per lasciar cadere al suolo la montagna di neve che si era depositata sulla mia testa. Poi, mentre mi scrollavo di dosso il resto della neve, agitandomi come un cane bagnato, mi maledissi mentalmente per essere stata così stupida. Con quel movimento della testa mi ero distratta dalla strada ed ero inciampata come un'imbranata. Volevo essere silenziosa e, invece, con quel capitombolo, avevo fatto sicuramente molto rumore.
Come in risposta al mio pensiero, tre paia di stivali invernali in pelle scura apparvero nella mia visuale.
Mi rialzai piano, molto piano. Mi sentivo ancora un po' stordita dopo tutte quelle capriole.
Dopo aver spolverato anche i pantaloni, togliendo altra neve, mi raddrizzai completamente e i miei occhi individuarono sùbito i tre ragazzi, che adesso si erano riuniti ai pendii di quel lato della collina, a circa un metro da me. E mi guardavano con perfido divertimento.
Avevano sicuramente sentito le mie urla e, probabilmente, mi avevano vista cadere e rotolare come una perfetta idiota. Maledizione!
Non avevo alcuna voglia di rivolgergli una singola parola, un singolo sguardo. Volevo soltanto andarmene via da lì e tornare a casa.
La luce era nuovamente cambiata, anche se il cielo era rimasto coperto da una coltre di nuvole grigie. Stava facendo buio. E l'aria stava diventando più fredda, più rigida.
Mi piegai per raccogliere alcune frecce che erano scivolate fuori dalla faretra durante la mia caduta e, dopo averle rimesse al loro posto, feci per avviarmi, ma il ragazzo con la cicatrice sul naso, che era rimasto tutto il tempo a guardarmi, con le braccia strette al petto ampio, si mosse e si mise davanti a me, bloccandomi il passaggio.
<<Ma bene, guarda che cosa ha risputato fuori la foresta. A quanto pare nemmeno lei ti vuole.>>
Con un sospiro, incrociai il suo sguardo. <<Ciao anche a te, Ryker.>>
Lui, in tutta risposta, assottigliò i suoi occhi castani scurissimi e sollevò un angolo delle sue labbra sottili.
<<Dove stavi pensando di andare?>>
<<A casa?>>
Ryker emise una risata, che assomigliò più a uno sbuffo. <<Toglimi una curiosità: come fanno quei due vecchi decrepiti a volerti ancora in mezzo ai piedi?>>
La cattiveria aveva messo radici molto profonde nell'anima di quel ragazzo e quando risaliva a galla, a volte era capace di aggredire senza pietà.
Ma io ormai ero immune a quel tipo di attacco.
<<Sono la mia famiglia, è normale che mi vogliano con loro.>> La mia unica famiglia.
Non avevo ricordi dei miei genitori. Loro erano morti tanto tempo prima, avevano contratto una malattia molto grave e incurabile. Solo io sopravvissi a quella sventura. I miei nonni, i genitori di mio padre, mi presero con loro quando ero solo una neonata in fasce.
Dovevo loro molto. La mia intera vita, in effetti.
<<No, non è normale. Tu sei un ripugnante scherzo della natura, Niamh.>>
Non mi importava di quello stupido soprannome che lui e la sua banda mi avevano affibbiato, ma il mio nome pronunciato da quella sua bocca velenosa mi faceva ribollire la rabbia nella pancia.
I miei nonni mi avevano spiegato che il nome che portavo risaliva a un'antica lingua, ormai perduta. Si pronunciava n-ee-v e aveva un significato particolare, probabilmente legato a una regina leggendaria o a un'antica dea.
Nonostante badassi poco a quelle sciocchezze, mi ritrovai improvvisamente gelosa. Non mi andava che prendessero in giro il mio nome.
Mi rabbuiai, ma non volevo dargli la soddisfazione di vedermi con il broncio, perciò alzai il mento e mi feci spuntare un ghigno malefico. Poi sganciai la bomba.
<<Sempre meglio che essere il figlio bastardo del Capitano. Io non vorrei ritrovarmi al tuo posto, dato che il tuo presunto padre non si degna minimamente di te.>>
Lo sguardo assassino di Ryker mi piombò addosso come la scure dell'antico dio della Morte. Ma non abbassai gli occhi, neppure il mento, e restai impettita quando lui mi arrivò a un centimetro dal volto, ringhiando: <<Che cosa hai detto?>>
Una mattina, dopo il consueto allenamento, mi stavo dirigendo dal Capitano Kylor per riscuotere il salario mensile. Una volta arrivata davanti alla porta in legno massiccio del suo ufficio interrato nella zona ovest dell'Arena alzai una mano e feci per bussare, ma un'adirata voce femminile arrivò alle mie orecchie. Dopo qualche secondo udii anche quella del Capitano, altrettanto arrabbiata. Rimasi con la mano sollevata, indecisa se bussare o meno. I due stavano litigando pesantemente, volevano insulti come niente. All'ennesima imprecazione decisi che non volevo ritrovarmi in mezzo a quella discussione, perciò abbassai la mano e mi girai, intenta a ritornare da dove ero venuta, quando sentii il nome di Ryker. Sapevo di non dover rimanere a origliare, se mi avessero sorpresa, avrei ricevuto una bella strigliata, ma la curiosità prese il sopravvento. E poi poteva ritenersi un vantaggio sapere qualcosa in più sul proprio rivale. Così mi accuattai vicino alla porta e appresi che Ryker era il figlio nato da una relazione clandestina tra il Capitano Kylor e quella donna. Lei si era presentata lì perchè voleva più soldi per il figlio e per sé stessa, ma il Capitano non voleva concederglieli. Quando ripresero gli insulti, ne avevo già abbastanza di quella conversazione. Immagazzinai, così, quella notizia e me ne andai.
<<Accidenti! Non dovevo dirlo?>> Allargai il ghigno che avevo sulle labbra e girai di poco la testa, scorgendo gli altri due ragazzi dietro di lui che si mandavano sguardi interrogativi. Quindi non lo sapevano. Bene, avevo toccato un punto dolente.
Non feci in tempo a posare nuovamente lo sguardo su di lui che mi agguantò i lembi del giaccone con le sue mani callose e mi alzò da terra, facendomi sbattere la schiena contro il tronco rugoso di un albero. Udii lo scricchiolio del mio arco e della faretra e, sùbito dopo, un dolore sordo si irradiò lungo tutta la spina dorsale, facendomi comparire una smorfia sul volto che, però, riuscii a mascherare con un altro sorrisetto insolente.
Mi chiudeva nella sua morsa e il suo alito caldo mi danzò sul volto, quando, con un sussurro rabbioso, disse: <<Rimangiatelo.>>
<<Dai, non te la devi prendere così tanto.>>
<<Ho detto rimangiatelo, cazzo.>>
Avvertendo quel suono di comando, la rabbia riprese a scaldarmi il sangue nelle vene. Lui non era nessuno per dettare ordini. Per dirmi ciò che dovevo o non dovevo fare. Quindi trasformai i tratti divertiti del mio volto in un'espressione quanto più seria e gelida possibile.
<<Altrimenti?>>
<<Altrimenti rimpiangerai il giorno in cui sei venuto al mondo, schifoso abominio.>>
<<È una minaccia, Ryker?>>
Lui non rispose subito e abbassò gli occhi per squadrarmi interamente. Quando li puntò di nuovo nei miei, erano carichi di odio e cattiveria. Sulle sue labbra un sorriso perfido.
<<Forse non te ne sei accorta, ma io non ti sopporto. Loro>> fece un gesto con il capo per indicare gli altri due ragazzi dietro di lui, sui loro volti la perfidia <<Non ti sopportano. Nenche il Capitano ti sopporta. Lui, come tutti noi altri, vorrebbe che tu sparissi dalla faccia di questo mondo.>> sputò lui tra i denti.
<<E chi te l'ha detto? Ci sei arrivato tu? Mi sembra un po' improbabile che tu sia riuscito a fare un ragionamento simile. Anzi, è già sorprendete che tu sia stato in grado di farlo, un ragionamento.>>
Se possibile, il suo sorriso divenne ancora più malvagio, quando rispose: <<Non c'è bisogno che qualcuno mi faccia presente ciò che è ovvio. Nessuno ti vuole. Perfino i tuoi genitori non ti hanno voluto, buttandoti via come la spazzatura che sei. Mi meraviglio che quei due vecchi siano ancora disposti a lasciarti entrare in casa loro, se quella catapecchia può essere definita tale.>>
Buttandoti via come la spazzatura che sei.
Loro non mi avevano buttato via, semplicemente se n'erano andati prima del tempo.
Non era colpa loro.
Non era colpa mia.
Ryker continuò il suo sproloquio, ma io non lo stavo veramente ascoltando. Almeno fino a quando non aggiunse: <<Se lo sono meritato. Hanno meritato di fare quella fine. Avrebbero dovuto patire di più per ciò che hanno fatto, per aver dato alla luce un essere disgustoso come te.>>
Sapevo perfettamente perchè tutti loro non mi sopportavano, perché non volevano avermi attorno.
Io ero diversa.
Diversa in un modo che, purtroppo, loro non potevano capire.
E sinceramente nemmeno io.
Perciò mi attaccavano, mi insultavano, mi escludevano.
Per tutta la mia infanzia e la mia adolescenza non ebbi un solo amico o amica con cui compiere le avventure che, solitamente, si dovrebbero condividere insieme a quell'età, stringendo un legame speciale.
Avevo la mia famiglia, i miei nonni. Avevo il libro con cui mi addormentavo la sera, ma ero sola.
Tremendamente sola.
Questo, però, non giustificava il fatto che Ryker, o chinque altro, potesse parlare in quel modo di mia madre e di mio padre.
Lui stava continuando a ghignare malignamente. E io stabilii di averne abbastanza di quella sua aria da stronzo arrogante. Delle sue mani aggrappate alla mia giacca che mi schiacciavano contro quell'albero. Di lui. 
Mi costrinsi a mantenere un'espressione neutrale, senza trasmettere alcuna emozione. Allargai solamente le narici, emettendo uno sbuffo. E poi mi preparai a colpire.
Ryker sgranò i suoi occhi scuri quando capì quello che stavo per fare, ma era troppo tardi.
Con tutta la forza di cui ero capace, sferrai una testata al suo naso deturpato.
Il ragazzo lasciò immediatamente la presa sul mio cappotto e barcollò all'indietro, mettendosi entrambe le mani sul naso sanguinante. Imprecò diverse volte, mentre io mi staccavo dalla corteccia di quel arbusto, mettendo di nuovo il peso del corpo sui miei piedi.
Mi mossi lentamente, un piede di lato all'altro, postandomi verso il centro della foresta per raggiungere il sentiero più vicino. E proprio in quel momento lo sguardo furibondo di Ryker si fissò su di me, inchiodandomi sul posto. Abbassò le mani dal viso, sul quale potevo scorgere rabbia e odio e disgusto. Un rivolo di sangue stava ancora colando dal suo naso gonfio e tumefatto, che pulì con la manica della sua giacca. Dopodiché si scagliò contro di me.
Parai il primo colpo, poi il secondo. Schivai il terzo e, sfruttando una piccola apertura, gli assestai un gancio sulla mandibola. E prima che potesse attaccarmi di nuovo, mi abbassai e affondai un altro pugno ben assestato nel suo addome, spedendolo contro un albero. Si schiantò con violenza, emettendo un grugnito di dolore, prima di ricadere con la faccia in giù nella neve.
Avevo usato solamente una parte della mia forza, eppure era bastata per far volare Ryker dall'altra parte della piccola radura innevata, facendolo schiantare contro quell'albero.
A sei metri di distanza.
Letteralmente.
Lui era una Guardia Argentea, quindi era ben addestrato per affrontare scontri del genere. E altri molto, molto più insidiosi di quello.
Ma io avevo qualcosa dentro che mi rendeva più potente di una normale Guardia Argentea. Più forte di un normale essere umano.
E questo mi rendeva estranea ai suoi e agli occhi degli altri.
Mi rendeva uno scherzo della natura, come mi aveva apostrofato Ryker.
Mentre mi rincomponevo, i due compagni rimasti in disparate mi rivolsero un'occhiata di disprezzo. E si avviarono verso Ryker, ancora disteso a terra. Stava cercando di rimettersi in piedi, tenendosi la panica con una mano e aggrappandosi al tronco dell'arbusto con l'altra. Imprecò violentemente e sputò del sangue dalla bocca spaccata.
<<Brutta stronza. Prega gli antichi dèi finchè ne sei in grado perchè te la faro pagare.>> sibilò, guardandomi dritta negli occhi.
Intanto gli altri due gli si fecero vicini, cercando di aiutarlo a rimettersi in piedi. Ryker li scansò e si tirò su da solo. Si teneva ancora l'addome, quando tentò nuovamente di venire verso di me.
Il ragazzo che aveva riso all'affermazione di Jarret di poco prima si posizionò davanti a lui e lo fermò.
<<Ryk, dai, lasciala perdere.>> disse, mettendogli le mani sulle spalle e spingendolo indietro.
<<Levati di mezzo, Brace.>> ringhiò Ryker al compagno. I suoi occhi erano sempre puntati nella mia direzione.
<<Verrà comunque punita per aver trasgedito alle regole. Se continuerai, verrai punito anche tu. Non ne vale la pena.>> puntualizzò Brace, girando poi la testa per osservarmi da sopra la sua spalla.
Era severamente vietato battersi con un compagno al di fuori dell'Arena, a meno che questo non si fosse convertito a minaccia, non fosse divenuto un traditore.
Si trattava di una delle regole principiali da osservare come membro delle Guardia Argentee.
E io l'avevo appena infranta.
Quindi sì, sarei stata castigata, ma non me ne importò nulla in quel momento.
Ryker soppesò le parole di Brace e, alla fine, disse: <<Per una volta hai ragione. Non ne vale la pena.>>
Non persi tempo a controbattere a quell'affermazione.
Dopo aver rivolto un'ultima occhiata a Ryker e alla sua faccia deformata, e ai suoi due seguaci, mi voltai verso un gruppetto di aceri spogli lì accanto e in mezzo a quelli individuai un piccolo sentiero che portava a sud, all'ingresso della Grande Foresta. Lo imboccai e dopo poco fui raggiunta dalla voce divertita e piena di disprezzo di Ryker, che, urlando, disse: <<Brava, vattene! Tornatene in quel buco di fogna da cui sei strisciata fuori e, questa volta, restaci per sempre!>>
Mi affrettai lungo la strada, mentre quell'ultimo insulto arrivava alle mie orecchie. Lasciai che mi entrasse dentro e mi invadesse la mente, mostrandomi per l'ennesima volta tutta la cattiveria di cui Ryker era capace.
Mi si formò un nodo in gola, ma cercai con tutta me stessa di scioglierlo e mandarlo giù.
Non avrei pianto. No, non avrei versato una sola lacrima.
Non sarebbe servito a nulla.
Non ne sarebbe valsa la pena.
Per scacciare via quella cosa che mi attanagliava l'anima, che mi appesantiva la testa e il petto aumentai il passo. Aumentai, aumentai, fino a quando non cominciai a correre. Corsi lungo tutto il sentiero che si diramava nella nuda vegetazione, illuminato interamente dalla luce del crepuscolo. Il mio respiro affannoso e i miei passi veloci erano l'unico suono udibile attorno a me. Corsi oltre l'ingresso della Grande Foresta.
Corsi, corsi, corsi.
Avevo le gambe e i polmoni in fiamme, ma non mi interessava. Quello era il solo modo per mettere a tacere i pensieri bui, per non sentire nulla, se non la fatica e il dolore che mi torturavano il corpo.
Riacquistai consapevolezza di me e di ciò che mi circondava solamente quando scorsi una lieve scia di fumo grigio fuoriuscire da un comignolo di pietra grezza, che si innalzava verso il cielo sempre più scuro, e, sùbito dopo, la piccola staccionata che circondava l'orticello sul retro della minuscola baita. Rallentai la corsa e ripresi il fiato che non avevo voluto dentro di me per tutto il tragitto, avviandomi, poi, verso il vialetto del cottage. Di casa mia.

A Girl in the Deceptive CourtDove le storie prendono vita. Scoprilo ora