Come era arrivato se ne andò e tutto si spense. Andrea si staccò dal bordo dello sportello e si massaggiò la riga rossa che si era formata sul fianco della mano. Si lasciò andare sul sedile, la testa rimbalzò contro il poggiatesta. Il passaggio dei camion lo sbatacchiava come una pallina da flipper. Nella tasca dello sportello del passeggero c’erano gli occhiali da sole di Cecilia, quelli che diceva la facevano sembrare più vecchia. A lui invece piacevano, sembrava una bambina con indosso gli occhialoni rubati alla mamma. Li afferrò. Era passato sì e no un mese da quando l’aveva aiutata a sceglierli. Lì per lì era sembrata convinta dell’opinione di lui, ma poi si era pentita al punto che non li riponeva nemmeno più nella custodia. Di solito lei era invece così meticolosa. Li aveva abbandonati lì, forse aveva voluto rifiutare qualcosa di lui. Tutta quella storia era solo l’epilogo di un qualcosa che era già successo da tempo tra loro due. Scagliò gli occhiali nel cassetto e lo richiuse con una manata. Maledizione!
Partì. Non sapeva dove stesse andando, gli andava bene di guidare e basta. Non l’aveva deciso, non lo capiva, seguiva una rotta incerta. Non era lui, era il suo corpo a guidare. Ad ogni incrocio sentiva quale era la direzione da seguire. Non a destra, non a sinistra, ancora dritto. Era una microscopica pagliuzza ferrosa attratta da un magnete invisibile. Un semaforo, una svolta a destra e poi avanti lungo il viale alberato con ai lati le auto addormentate, le finestre accese per la cena, le serrande dei negozi abbassate. Una coppietta attraversò felice davanti alla sua auto e a lui parve solo una questione di tempo.
Svoltò a sinistra. Adesso sapeva dov’era. La strada si stringeva e le villette sbucavano da dietro i giardini. Rallentò. Non sapeva se sperare di trovarla lì o pregare per il contrario. Quella casa aveva le luci accese al primo piano e le tapparelle abbassate al piano terra. Allungò il naso e sbirciò tra le auto posteggiate nel cortile. Le riconobbe. Controllò anche quelle parcheggiate in strada, ma la sua non c’era. La tenda della sala da pranzo ondeggiò e un’ombra panciuta apparve deformata dalle pieghe del tessuto. Andrea si rincantucciò dietro il volante. No, gli rotolò fuori di bocca. Ingranò la prima e scivolò via come un gatto; girò attorno al parco giochi e imboccò la superstrada verso casa.
Basta, pensò. Ne scandì sottovoce le sillabe. Ba-sta ba-sta ba-sta. E si rispose con fa-me nel momento in cui passò sotto all’insegna di un fast food. Scese dall’auto che i vestiti gli puzzavano già di unto. All’interno un gruppo di ragazzini aveva occupato tre tavoli, una coppia tubava in un angolo e per il resto c’erano altri due derelitti come lui. Si mise in fila avendo già smarrito il motivo per cui si trovasse lì. Il cassiere lo fissava con il vassoio pronto e le dita tamburellanti.
"Vorrei…” si perse. Guardò le foto appese sopra alla sua testa e poi ordinò un menù a caso.
Si sedette ad un tavolinetto appoggiato alla vetrina umida. Scartocciò il panino e ne addentò un pezzo. Rovesciò le patatine sulla tovaglietta e le innaffiò di ketchup e maionese. Non era stata una grande idea prendere la coca cola, ma prima non aveva avuto la forza di reagire all’inerzia. Si attaccò alla cannuccia. Poi svestì completamente il panino e si riempì la bocca di patate. Non si era lavato le mani. Gli lampeggiò in testa come un semaforo. A lui non importava nulla, era lei che lo punzecchiava sempre. Spalancò la bocca e vi ficcò dentro un’altra manata di patate e di seguito un boccone di hamburger. Non riusciva nemmeno a masticare da quanto aveva la bocca piena. Agguantò il mucchietto di tovaglioli e si pulì malamente la salsa che colava ai lati della bocca. Mandò giù un groppo di cibo e per non soffocare si picchiò un paio di volte il petto con il pugno della mano insanguinata di ketchup. Tossiva come un allergico sopra ad un materasso di fieno. Era aggrappato al tavolino con entrambe le mani. Mandò giù un altro po’ di cibo e tornò a respirare. Stramazzò contro la spalliera della sedia. Facce schifate lo fissavano. Girò la testa al soffitto, tossì e alcuni pezzetti di cibo rimbalzarono sulla sua faccia. Con un gorgoglio risucchiò l’ultimo sorso di coca cola e ruttò. Di sicuro adesso aveva l’inferno in mezzo ai denti. Ne fu soddisfatto. Come anche di poter insudiciare i jeans di salsa e non doversi lavare le mani e pulirsi la bocca e mangiare a piccoli morsi e non ruttare e parlare a bassa voce e non scaccolarsi e non scoreggiare. Appallottolò i rifiuti all’interno della tovaglietta di carta. Scoperchiò il bicchiere e si rovesciò in bocca il ghiaccio. Gli si anestetizzò la lingua e poi le guance, le labbra e giù la gola. Freddo. Immobile. Gelo. Un dolore acuminato raggiunse il suo stomaco. Era una mitragliata di aghi che lo torturava da dentro. Di colpo spalancò gli occhi. Si alzò di scatto, la sedia si ribaltò. Afferrò il vassoio e lo abbandonò così com’era due tavoli più in là. Corse fuori e mise in moto.
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Bivio
RomanceAndrea e Cecilia stanno insieme da qualche anno. Hanno un lavoro precario e a fatica riescono a far fronte alle spese per l'affitto e le bollette. Improvvisamente hanno l'opportunità di andare ad abitare a casa di parenti. Questo porterà a un bivio...