Aria nuova

8 0 0
                                    

Non spengono mai le luci, restano accese tutta notte così come i computer. È per evitare un picco nei consumi di energia elettrica alla mattina. Adesso che era lì, la voce di suo fratello gli risuonava in testa.

L’autista schiacciò sull’asfalto il mozzicone di sigaretta, risalì sull’autobus e mise in moto. Sfilarono accanto a quei cilindri di cemento armato corazzati di vetrate fino al pavimento, con gli uffici deserti, le sedie scostate disordinatamente dalle scrivanie e l’aria come impregnata della solitudine silenziosa di una città abbandonata dopo una catastrofe.

Alla fine non gli ci era voluto molto per decidere. Aveva richiuso il computer nella custodia, infilato qualche vestito nella borsa e preso il primo aereo in partenza. Il suo lavoro dopotutto poteva svolgerlo ovunque ci fosse una copertura internet decente, ovvero su buona parte del mondo che a lui interessava.

Lo sconosciuto alla sua destra barrì: sonnecchiava con il capo rovesciato all’indietro e ben stretta in grembo teneva una borsa da palestra. Forse il suo mondo si concentrava tutto lì dentro e non lo mollava mai, nemmeno quando dormiva. Era semplice: lo impacchettava, lo rinchiudeva per bene con la zip e se lo portava appresso ovunque.

Per lui invece era tutto così complicato e stupido e terribilmente infantile. Forse avevano ragione i suoi: era viziato. Nessun problema a scuola, nessun problema a casa, nessun problema fino a quando se ne era stato ben al riparo sotto la veranda di casa dei suoi. E poi nel momento in cui aveva messo appena appena il naso fuori, si era ritrovato nel bel mezzo dei primi temporali della vita e lui si era buscato da subito una polmonite, quando invece al suo compagno di viaggio lì accanto avrebbero provocato sì e no un paio di starnuti.

Tornò a poggiare la fronte contro il finestrino. Pioveva. La città digeriva lentamente il traffico. Ad ogni semaforo i ciclisti filtravano davanti con le loro bici dai manubri stretti e si fermavano con il piede sul pedale pronti a scattare. C’era sempre qualcosa che sfuggiva. Per quanto calcolato e pianificato e ragionato e sognato, le cose andavano per conto loro senza briglie. E allora l’unica soluzione possibile era quella di muoversi per non essere raggiunti dal rullo compressore del tempo.

Svegliò il suo vicino di viaggio e recuperò la valigia da sopra le loro teste. Uscì fuori, si tirò su il cappuccio e si rincantucciò dentro al giubbotto. Il trolley ballonzolava dietro ai suoi piedi. Dopo pochi passi le scarpe da ginnastica gli si erano già inzuppate d’acqua. Girato l’angolo riconobbe il palazzo. Corse su in cima alla scaletta di mattoni rossi che sbordava fin sul marciapiede e suonò il campanello. Strinse gli occhi e guardò in alto le finestre dell’appartamento di Davide. 

Suonò di nuovo, questa volta più a lungo.

Aveva freddo. Il labbro inferiore gli tremava come gelatina su di un vagone ristorante. Tirò dentro un filo d’aria a denti stretti. Poi si slacciò il giubbotto e dalla tasca interna prese il telefono. Selezionò il numero di suo fratello, ma non risolse nulla.

‘Fanculo Davide!’

Si rigirò su se stesso con le braccia incrociate sul petto e le mani incuneate sotto le ascelle. All’angolo c’era un pub. Avrebbe potuto rifugiarsi lì fino a quando non fosse riuscito a parlare con quel cretino di suo fratello. Si guardò i piedi: erano due blocchi di ghiaccio. Poi notò qualcosa sotto alla suola di gomma delle scarpe: un foglietto. 

'X Andrea. Scusa, ma non posso aspettarti. Suona al campanello dell’appartamento sotto al mio, “Barney”. Ti apriranno, hanno le chiavi di casa mia. Ciao’

Questa è un’altra delle sue cazzate, pensò. 

Pigiò il campanello e la porta si aprì poco dopo.

Una ventata di aria stantia lo investì. Un paio di biciclette erano appoggiate contro il muro con la carta da parati strappata e la moquette delle scale era un patchwork di polvere e buchi. Una porta scricchiolò al piano superiore. Afferrò il corrimano che pareva doversi staccare da un momento all’altro e salì trascinandosi dietro il trolley. Le scarpe guaivano ad ogni passo. Scorse la porta aperta al primo piano: una ragazza era appesa alla maniglia. Le sorrise e di colpo mancò l’ultimo gradino. Mollò la valigia che ruzzolò giù con un baccano infernale e lui volò sul pianerottolo lungo disteso con la borsa del computer appesa a un braccio. Tintinnavano: le chiavi che lei teneva tra le mani trillavano al ritmo delle sue risa.

Starnutì e quando fu in grado di respirare di nuovo, la salutò con un cenno della testa. Poggiò in terra la borsa del computer e andò a recuperare la valigia.

"Mi dispiace. Ti sei fatto male?”

"No, niente”

Aveva un male dell’inferno a un ginocchio, ma si sforzò di ignorarlo.

"Grazie per le chiavi”

Se la cavava ancora bene con l’inglese, pensò.

Afferrò le chiavi e tirò su col naso. Poi infilò la testa nell’incavo della tracolla della borsa.

"Aspetta. Sei appena arrivato. Vuoi qualcosa di caldo da bere?”

Lei inclinò la testa e un ciuffo di capelli blu e rosa le coprì il viso.

BivioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora