Capitolo 11.

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Tra le gracili piante rampicanti di pomodoro, rami di un verde intenso mischiato all'oro delle foglie più anziane, una coltre di ricci scarlatti si divertivano a mimetizzarsi col rosso intenso di frutti succosi, pieni e maturi. Dita incerte afferravano con delicatezza la liscia pelle vermiglia, adagiandoli in una cesta in vimini riempita quasi all'orlo di prodotti della natura, cresciuti con una cura maniacale. Le rotondità perfette e la morbidezza di una superficie mai violata davano l'impressione di trovarsi davanti a qualcosa di irreale.

Samaele era attento a ogni minimo dettaglio, non voleva scatenare l'ira di suo padre, tanto meno quella di Michele e doveva ingegnarsi per portare a termine un lavoro in cui, come premio, sarebbe stato lasciato in pace per l'intera giornata. Doveva guadagnarsi la sua tranquillità per vivere, non aveva altra scelta, soprattutto dopo aver litigato con suo fratello la mattina presto.

Il sangue si era raggrumato sul viso, non aveva fatto in tempo a lavarsi prima di uscire e liquido cremisi aveva lasciato scie evidenti sulle guance: lacrime di sofferenza su un volto tumefatto. La ferita alla testa si era trasformata in una profonda crosta scura color mattone, mentre un enorme livido violaceo si diramava dalla tempia fin sotto lo zigomo, dove nocche grosse quanto una noce si erano divertite a imprimere i segni del loro passaggio. Lo strazio dei capillari rotti aveva ispessito la pelle e il gonfiore non faceva altro che paralizzare i pochi movimenti muscolari del volto. Non comprendeva più il significato di essere felici, nei ricordi aveva come l'impressione di non aver mai riso, scherzato con qualcuno. Il suo perenne galleggiare in un mondo di esseri umani privi di compassione, creati dal più perverso dei demoni, aveva destabilizzato ogni cellula. Dopotutto, l'indole umana era predestinata a diventare irascibile, cattiva, perché nessuno nasceva innocente. Dal primo respiro di vita di un neonato, fatto di grida e pianti, fino all'ultimo rantolo strozzato, si aveva la consapevolezza di vivere in un'esistenza infelice. La non realizzazione di se stessi portava sempre a un'unica conclusione: il livore verso il proprio creatore. Per quel motivo Samaele non voleva pregare un Dio senza un briciolo di gentilezza nei suoi confronti; se per lui non esisteva la pace, allora perché ringraziare chi lo aveva confinato nell'eterno dolore?

Si guardò attorno, le piante rampicanti lo circondavano, lo celavano dai terrori della vita, l'unico posto silenzioso in cui poter far morire i propri tormenti. Il sole giocava a nascondino con le nuvole e appoggiava i tenui raggi pieni di pulviscolo tra i piccoli fori sulle foglie creati da bruchi affamati. Intensi coni di luce si riflettevano sulla pelle chiara, piena di lentiggini, costellazioni inesplorate, e si divertivano a bruciargli scaglie di vecchie ferite. Le ciglia sottili e rossicce brillavano sotto l'effetto luminoso di una stella troppo incandescente. Atomi di sole si posavano su di esse, una neve trasparente, a tratti fastidiosa, solleticava la voglia di strofinarsi le palpebre, ma le mani sporche di terra e succo di pomodori troppo maturi non permettevano a Samaele di esaudire quell'incontrollato desiderio.

Non smetteva di pensare, di riportare alla mente rimembranze di un volto spigoloso e iridi colme di un'ambra cristallizzata, dove al suo interno ospitava una pupilla più nera della morte. Matilde era rimasta tra le pieghe del cervello, nelle ferite più profonde cicatrizzatesi sul suo corpo e sul volto. Un fremito percorse l'intero sistema nervoso e spalancò gli occhi per un istante, accogliendo dentro di sé una sensazione di dolce appagamento. Voleva a tutti i costi trovare un modo per tornare a parlare con lei, assuefarsi del suo profumo di fiori di campo e saziarsi della sua schietta intelligenza.

Sospirò, lasciando che l'alito uscisse fuori dalle sue labbra morbide, contornate da lentiggini. Alzò la testa verso l'alto con movimenti lenti del collo, mentre i raggi riscaldavano le gote purpuree. Gli regalavano l'unico calore di cui poteva bearsi in mezzo al gelo della sua mera esistenza. Il sole, quel giorno, si era agghindato di abiti fatti di nuvole, creavano giochi di luce e ombre tra l'azzurro intenso del cielo. Alcune erano di un bianco latteo simile a zucchero filato, altre invece erano più grandi e scure a causa della loro maggiore densità. Riusciva quasi a toccarle se avesse allungato di poco un braccio verso l'alto.
Assottigliò per un momento le palpebre, per non accecare le sue delicate iridi smeraldine e non irritare le candide sclere aggrovigliate in un nodo di capillari e nervi.

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