Capitolo 2: Nuovo arrivato

8 2 0
                                    

Bussai alla porta. Una voce, probabilmente quella dell'insegnante, mi invitò ad entrare, e la aprii. L'aula era molto luminosa rispetto al corridoio in cui mi trovavo precedentemente, mi ci volle un po' perché i miei occhi si abituassero. Una professoressa dall'aria austera, con gli occhiali posizionati sulla fronte, stava scrivendo delle formule alla lavagna con un gessetto bianco. Mi guardò con un misto di curiosità e un'aria severa. "Tu saresti...?" mi chiese leggermente irritata, dopo aver aspettato un po' una mia spiegazione sul perché mi trovassi lì. "Mi chiamo Nariaki, sono nuovo qui. Questa dovrebbe essere la mia nuova classe." dissi, leggermente imbarazzato. La professoressa mi guardò per un secondo, sorpresa, e, per un attimo, temetti di aver sbagliato classe. Il suo sguardò si illuminò, come se si fosse appena ricordata di qualcosa. "Ah, si è vero! Accomodati, Nariaki. Io sono la professoressa Natsuko, insegno un bel po' di materie qui: aritmetica, geometria, algebra, scienze e fisica." L'unico posto rimasto libero era quello proprio di fronte alla cattedra, e la cosa non mi fece granché piacere. Mi lasciai scivolare sulla sedia, facendo cadere la mia borsa alla mia sinistra. Tirai fuori un quaderno e cercai di prestare attenzione alla lezione d'algebra, ma non ci riuscii. Continuavo a immergermi nelle mie riflessioni... il tempo passò molto lentamente, sembravo non accorgermi di quello che mi accadeva intorno. Ad un tratto sussultai, udendo il mio nome. "Nariaki, sapresti ripetermi l'esercizio che ho appena spiegato?" Strabuzzai gli occhi, sentii le mie guance avvampare e un intenso calore avvolgermi all'improvviso, volevo togliermi la felpa. Rimasi in silenzio. "Non stavi prestando attenzione, vero?" disse avvicinandosi. Notò il mio quaderno, completamente bianco, e mi guardò negli occhi, tirando un sospiro. Io abbassai i miei, sempre più rosso. Avevo le mani tutte sudate, e volevo che un buco nero mi facesse sparire, nel Sahara, su un ghiacciaio, in bocca ad un pinguino, non mi importava dove. Mi morsi un labbro. "No, non stavo seguendo. Mi scusi." La professoressa tirò un altro sospiro. "Mi dispiace metterti una nota il tuo primo giorno di scuola, ma è meglio che tu ti dia una regolata subito." Mi sorrise. Non sembrava arrabbiata. Abbassai gli occhi. Il suo modo di fare mi dava sui nervi, mi faceva sentire una persona orribile. Strinsi i pugni ,e, senza fare una piega, le porsi il libretto delle comunicazioni disciplinari, una specie di libretto bianco con delle scritte in nero. Sembrava una specie di fedina penale, secondo me. Lei lo prese e ci scrisse sopra qualcosa, poi me lo ritornò. Senza nemmeno leggere ciò che aveva scritto, lo riposi nella mia borsa e tornai a fissare il vuoto, questa volta, però, prestando attenzione alla lezione, seppur evitando lo sguardo della professoressa. Poco dopo suonò la campanella, lei raccolse le sue cose ed uscì. Gli studenti si alzarono ed uscirono a loro volta, per andare a riporre le loro cose nei propri armadietti. Io uscii per ultimo e mi diressi verso quello che sembrava essere il mio armadietto, il numero 638. Era già aperto, e dentro ci infilai i libri che non mi servivano e quelli per le prossime lezioni. Mentre lo richiudevo mi cadde l'occhio su quello del mio vicino. C'era attaccata una foto, ritraeva un ragazzo dai capelli bruni e uno con i capelli un po' più scuri, abbracciati, entrambi sorridenti. Sentii una fitta al cuore, vedendo due ragazzi così affiatati. Il ragazzo, intanto, stava avendo problemi ad aprire il suo lucchetto. "Ehi" dissi, cercando di sembrare simpatico, per quanto io non sappia come si fa. "Ti serve una mano?" Lui si girò e mi guardò, un po' sorpreso. Sembrò riconoscere in me qualcuno di noto, ma io non sapevo chi fosse lui. "No." disse, aprendo di botto il lucchetto. Prima di richiudere l'armadietto prese la foto che aveva attaccato al metallo. Tenendola fra le mani un po' tremanti, richiuse l'armadietto con un calcio e il suo sguardo mi scrutò, con aria truce. Iniziò a strappare con rabbia la foto. Io lo osservai esterrefatto. Lasciò cadere i pezzi per terra e se ne andò. Io mi inginocchiai, sentendo la porta dell'aula sbattere. Riavvicinai i pezzi lentamente, fino a riformare la foto. Il ragazzino di destra, con i capelli bruni e le guance un po' scavate, che sorrideva, nonostante alcuni lividi e tagli in fronte, mi sembrò familiare. Lo guardai con attenzione, aveva il naso fasciato e un accenno di lentiggini. Lo riconobbi. Quel ragazzino... ero io.

Grazie a teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora