Era un freddo autunno veneziano, ottobre ormai un ricordo appassito per lasciare il passo al gelo di novembre. Le strade dell’isola erano costellate di studenti intenti a correre da una sede all’altra dell’università, i veneziani dalle botteghe guardavano le strade con diffidenza, indispettiti dalle masse turistiche, fortuna e rovina della città.
Sotto un cielo cinereo, perduto in quel dedalo di specchi d’acqua, suonavo. Mi trovavo sul ciglio della strada, fuori dalla stazione dei pompieri di Rio Nuovo. Non essendo titolare di grandi ricchezze, cercavo di ottenere qualche fondo extra, per le spese quotidiane e le bevute serali. Con l’ingiallirsi delle foglie, i bicchieri di vino bevuti in qualche bettola buia in compagnia di volti amici, diventavano l’unica panacea che possa contrastare la malinconia di certe nuvole. Sotto un cimitero di trifore e guglie suonavo la mia musica in sintonia col paesaggio, temi oscuri, vecchie canzoni basche sulla guerra civile, melodie scozzesi del ‘700 che gridavano libertà, vecchi temi bretoni di pirati e contrabbandieri. Tutto ciò che, per quanto affascinante, non mi avrebbe fatto guadagnare molto. Ogni tanto qualcuno si fermava, incuriosito dalla lingua dei brani, altre volte senza degnarmi di uno sguardo, mi concedevano una moneta per poi riprendere il passo, così, canzone dopo canzone il pomeriggio passava.
Dovevo sembrare una figura piuttosto eccentrica dall’esterno, calzavo scarponi Timberland vecchi e consunti, Jeans neri da grande magazzino, stretti in vita da una cintola di pelle. Una camicia di flanella a quadri bianchi e neri infilata dentro i pantaloni, gli ultimi due bottoni slacciati in modo che si intravedesse una parte del petto, non particolarmente villoso, sormontato da ciondoli e collane. I capelli corti facevano da base ad una vecchia coppola grigia calata sulla fronte. Un vecchio Loden, pagato quattro spiccioli al mercatino delle pulci, era appoggiato sulle mie spalle robuste a mo’ di mantello, così che potesse scaldarmi senza impedirmi di suonare. Ovviamente il tutto era coronato dalla mia Eco, storica chitarra classica di fabbricazione italiana che mi accompagnava da anni ovunque andassi, eterna fonte di socialità e reddito di sopravvivenza. Nella custodia foderata di fronte a me, nonostante il poco successo riscosso da quei brani, c’era quanto bastava per campare un paio di giorni. Avrei potuto finirla lì, ma l’amore per la musica era talmente grande che pensai di concedermi un ultimo brano, prima della dipartita artistica. Iniziai a pizzicare le note di Gure Bazterrak in omaggio alla nebbia che avanzava dai canali verso le calli. Appena iniziai a cantare si fermò di fronte a me una ragazza, la sorpresi intenta ad ascoltare. Sembrava più grande dei miei 26 anni, ma non avrei saputo dire di quanto. Mi ascoltava assorta, come se la musica cancellasse la mia figura per lasciarla sola, in contemplazione della bruma e di Venezia. Indossava degli stivaletti bassi di pelle scamosciata con un po' di tacco, le gambe magre ed eleganti, ammantate nei collant sparivano sotto un cappotto scuro. Il suo bellissimo viso trasmetteva una strana serenità, in contrasto alla melodia che suonavo, come se quelle gote fossero propense al sorriso, a dispetto delle altre emozioni. Una lunga chioma di capelli castani mossi le circondava il viso, cadendo ora sulle spalle, ora dietro la schiena, i suoi occhi color nocciola parevano imperscrutabili, fissi sulla mia figura, eppure sembrava che non mi vedesse nemmeno, nascosto tra le note e le parole del compositore basco Mikel Laboa.
Il brano era sul punto di terminare, quando la nebbia ci colse confondendo la sua figura. Nonostante l’ostentata eleganza, quella donna mi dava l’impressione di essere diversa, come se quel vestito fosse una maschera e il suo animo fosse più vicino ai miserabili come me che ai borghesi impettiti e alle dame da salotto. Mentre rimuginavo sull’origine di questo presentimento, la canzone era giunta a conclusione. Mi applaudì per qualche secondo, così le risposi con un teatrale inchino. Desideravo parlarle, sentivo che in quella ragazza c’era qualcosa speciale, che andava oltre la sua bellezza, ma nella mia trasandatezza mi sentivo come un giovane Martin Eden e non sapevo come vincere l’imbarazzo. Decisi che la cosa migliore da fare era buttarsi, accettando il rischio di fare una magra figura. Era lì, di fronte a me senza dir nulla, presi la custodia e raccolti i soldi ci deposi la chitarra, quando finalmente mi alzai deciso ad aprir bocca…
La strada era deserta.
La nebbia penetrava i lastroni di pietra della calle e i muri degli edifici lì intorno, non si riusciva a vedere a più di cinque metri di distanza. L’unica cosa che riuscivo a distinguere erano i rintocchi di suoi passi che si affievolivano in lontananza, senza che potessi intenderne la direzione.
Era svanita…
“Dannata Venezia! Dannata nebbia! Dannata indecisione!”. Mi disperai.
Preso dallo sconforto crollai sullo sgabello pieghevole usato per suonare, cercando di capire se quanto fosse appena successo fosse reale o l’illusione di una mente stanca e suggestionata che cercava figure da sogno nel candore dell’aria.
Fu solo l’ennesima domanda senza risposta. Raccolsi baracca e burattini, per poi avviarmi verso casa, tentare di seguirla sarebbe stato sciocco, l’avevo guardata solo per pochi minuti, quasi non si vedeva a un palmo dal naso e avrei rischiato di girare a vuoto come un’anima spersa.
Presi la strada per campo San Barnaba sognando segretamente di rincontrarla, mentre le mie speranze si sgretolavano al suono tintinnante dell’incasso della giornata che sobbalzava nella borsa lungo la via. Accompagnavano ogni mio passo come un sonaglio, mentre pregavo disperatamente il cielo di relegare quell’esperienza all’oblio della memoria.
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Venezia-La Musica della Nebbia
Short StoryNella cupa desolazione di una Venezia autunnale, la musica non è che la mera cornice, della passione e dell'amor carnale. Quando la sorte da avversa muta in alleata, la città viene sommersa dalla nebbia e la strada è tracciata. Un giovane artista di...