Il Biglietto

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I giorni passavano ma quel maledetto ricordo persisteva. Delle decine di persone si fermavano ogni giorno ad ascoltarmi, mai nessuno aveva attirato tanto la mia attenzione da lasciarmi così interdetto. Cercavo di non pensarci, passando la vita come avevo sempre fatto, trovando rifugio nella ciclica e accogliente monotonia delle mie giornate. La mattina andavo in biblioteca, studiavo svogliatamente per questo o quell’altro esame universitario. Poco dopo mezzodì consumavo un pranzo improvvisato seduto con le gambe a penzoloni sulla fondamenta delle Zattere, passavo a casa a prendere la mia chitarra e mi stabilivo sempre nello stesso punto. Suonavo quindi per qualche ora, sperando di svendere la mia passione per quei quattro soldi che mi avrebbero permesso di fare un altro giro di giostra il giorno seguente. La sera intorno alle 18, raccoglievo le spoglie tintinnanti della mia dignità e dopo aver lasciato tutto a casa mi ritrovavo con i soliti quattro amici in Calle Larga dei Bari. Tutte le sere passavamo la notte al Bacaro Quebrado, gestito da uno dei miei compagni di sventure con qualche anno in più sulle spalle. Lì annebbiavo i miei sensi e la mia mente con alcol, fumo e carte, finché le mie gambe o quelle di altri non mi riportavano a casa.
Dopo una settimana scarsa il ricordo di quel tardo pomeriggio stava svanendo, finalmente i miei pensieri avevano la decenza di focalizzarsi sui problemi di tutti i giorni, non su un sogno fugace concepito dalla nebbia.
Erano le sei della sera, stavo suonando un vecchio pezzo scozzese che musicava un sonetto di Lord Byron, quando la mia visione si materializzò all’imboccatura della calle. Prima un suono lontano, ritmato, regolare, come le lancette di un vecchio orologio, poi man mano più vicino. Più quel ticchettio mi si faceva innanzi, più la fisionomia di quella sagoma scura illuminata dai lampioni prendeva forma e diventava realtà…
Era lei!
Indossava le stesse scarpe di quel giorno, il suono del suo passo che giungeva inesorabilmente divenne un’epifania struggente.
Era tornata, forse per il desiderio di udire ancora la mia musica, forse aveva percepito un’intesa durante il nostro primo incontro e ora era tornata sui suoi passi per non commettere il crimine di uccidere un’idea, ancor prima che possa sbocciare. Era quasi giunta di fronte a me, le dita non rispondevano più ai comandi, la voce moriva in gola producendo un suono strozzato, gli occhi erano incatenati alla sua figura e al movimento appena accennato dei suoi fianchi.
Quando mi fu davanti, tutta la grazia o l’eleganza che avrei potuto sfoggiare si dileguarono, così rimasi quasi immobile, suonando fuori tempo, senza più nemmeno la voce per cantare.
Il suono dei suoi passi a differenza della mia musica, non si incrinò nemmeno per un istante. Accorgendosi del mio sguardo imbambolato mi ricambiò con aria divertita, i nostri occhi si incontrarono in un istante come non avrei mai osato sperare.
Mi superò, chinando leggermente il capo così da potermi osservare ancora per qualche metro, si morse leggermente il labbro accennando un sorriso, poi guardò dritta davanti a sé e a passo di marcia proseguì attraversando il ponte di pietra bianca scomparendovi dietro.
Forse si aspettava che dicessi qualcosa, forse attendeva un cenno, una parola, ma nel mio sbigottimento non riuscii a proferir verbo. Ancora una volta avevo perso l’occasione di farmi avanti. La sua immagine appena svanita mi riappariva nella testa coperta da un’aura di timore reverenziale, ancora una volta maledissi me stesso, carnefice del più roseo tra i miei destini.
Non sapevo nemmeno se vivesse in città o fosse di passaggio. La provvidenza mi aveva dato una seconda possibilità, ma nella mia incapacità di porre fine all’interminabile attesa di Godot, ero rimasto inerme, ignavo figlio di quella situazione surreale.
Dovevo reagire, non potevo certo crucciarmi all’infinito, ma l’unica reazione che il mio cervello seppe suggerirmi fu quella di bere più del solito quella sera. I pensieri sarebbero svaniti grazie alla magica pozione color rubino che annega ogni male.
Ripresi le mie cose e imbracciata la chitarra mi diressi dunque verso casa, ma dopo pochi metri mi dovetti fermare, ritrovandomi attonito a guardare i lastroni della strada. C’era un piccolo pieghevole per terra, proprio nel luogo in cui lei aveva voltato lo sguardo per proseguire lungo la sua strada. Lo colsi da terra, era una locandina. L’immagine di un’orchestra e di attori in costume era sormontata da scritte in caratteri d’oro: “Stasera alle ore 21, al Gran Teatro la Fenice, sotto la regia di Damiano Micheletto, la prima del Don Giovanni di Mozart”.
Mi ritrovai confuso a osservare quel foglio, lo tenni tra le mani, lo rigirai varie volte, finché un cartoncino più piccolo non scivolò fuori e roteando si posò sulla pietra grigia… Un biglietto senza nome per lo spettacolo!
Sarebbe potuto appartenere a chiunque, eppure qualcosa mi suggeriva che non era così. Un presentimento mi suggeriva che quella brochure era caduta esattamente perché io la trovassi, voleva essere trovata. Forse era solo la mia mente che giocava qualche scherzo di cattivo gusto, le strade di Venezia non sono certo le più spoglie del mondo, la gente perde continuamente di tutto. Chiunque avrebbe potuto smarrire quel foglio.
Le date coincidevano, era proprio quella sera, mi pareva che nessuno avesse perso alcunché prima del suo passaggio. Quel dilemma mi stava spaccando la testa, cosa fare di fronte ad un bivio del genere?
Tentare la sorte e usare quel biglietto per andare all’opera o affidarmi alla consolante e banale routine quotidiana?
Anche ammesso che fosse caduto al suo passaggio, nulla mi assicurava che l’avrei trovata lì, la possibilità che lo avesse lasciato cadere volontariamente non mi sfiorò nemmeno per un secondo. Se poi fosse stato il suo biglietto, una volta perduto probabilmente avrebbe desistito.
Però in fondo avevo nulla da perdere, avrei potuto comunque goder dell’opera ed era pur sempre un’occasione per vivere una serata non ordinaria. Decisi che avrei fatto quanto fosse in mio potere per tentare di rivederla e se ciò fosse accaduto non mi sarei lasciato sfuggire, ancora una volta, la possibilità di parlarle. Tornai a casa più rintontito e confuso che mai, l’opera iniziava alle otto, così avevo del tempo per prepararmi. Entrato nell’appartamento mollai tutte le mie cose sul letto per entrare in doccia. Mentre l’acqua rovente mi levigava la pelle, i pensieri s’affollavano come maschere carnevalesche nel mio cervello, deridendomi e sminuendomi mi urlavano che ciò che stavo facendo non poteva aver seguito e che al calar del sipario mi sarei trovato solo e beffato, ma ormai ero deciso, non aveva più importanza.
Una volta pulito e asciutto mi buttai sul letto e presi tra le mani quel biglietto, lo osservai a lungo, non era una poltrona qualsiasi sita in platea o nel loggione, era un posto in un palchetto privato, il numero 24.
Non sapevo bene cosa pensare, di solito si tratta di posti riservati ai proprietari di tali spazi e solo quando non hanno padrone o il possidente né da precise istruzioni, sono aperti al pubblico.
L’avrei trovata lì?
Sarei stato circondato da sconosciuti che mi avrebbero dardeggiato di sguardi inquisitori?
Altrimenti, nella peggiore delle ipotesi, mi sarei trovato di fronte quella donna bellissima, accompagnata dal fidanzato, da un amico, un’amante o chicchessia. (non) Rimuginare non aveva alcun senso e soprattutto non mi dava alcun sollievo.
Mi avviai verso l’armadio, indossai i pantaloni neri eleganti e la camicia bianca che utilizzavo di tanto in tanto per lavorare al ristorante lì vicino. Poi tolsi il velo di cellofan che rivestiva il vecchio smoking di mio padre, relegato in un angolo dell’armadio e fino ad allora mai utilizzato, come dimostrava l’odore acre di naftalina.
Finito il rituale della vestitura mi guardai allo specchio, mi sentivo un figurino! Certo non avevo né il fisico né il viso di un adone, mio padre poi era più robusto di me e un occhio attento avrebbe notato che la giacca era leggermente più grande di quanto (si) convenisse, ma non mi importava: quello era il massimo che potessi fare e non avevo alcuna remora.
Quando giunse il momento di scegliere tra cravatta e papillon, risi di me stesso guardando la mia immagine riflessa. Mi faceva piacere vestirmi a festa per una volta, ma non potevo snaturarmi tanto, slacciai l’ultimo bottone della camicia ed indossai una piccola collana d’argento con un Triskell come ciondolo. Quello era il massimo che potessi fare.
Quando mancavano solo 30 minuti all’inizio dell’opera uscii di casa. Il mio appartamento si trovava in una piccola corte nascosta, alla quale si accedeva solo attraverso uno stretto sottoportego occultato dal giornalaio di Campo San Barnaba; presi la calle che passava per la Toletta e mi avviai in direzione del Gran Teatro la Fenice.

Venezia-La Musica della NebbiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora