Mi ritrovo in un luogo a me noto: la stazione di Milano. Il frastuono dei treni copre quasi completamente il pianto di un neonato. Un momento, questa scena mi è famigliare... quel neonato sono io!
Fin da bambina i miei mi hanno raccontato di come una anziana signora mi aveva trovata su una panchina nella stazione, avvolta in un asciugamano rosa, che piangevo disperata. L'idea di essere stata abbandonata in quel modo mi distruggeva, ma crescendo ho iniziato a pensare che se i miei genitori biologici mi avevano lasciata probabilmente non erano in grado di curarmi, quindi meglio così, almeno sono capitata in una famiglia amorevole.
Detto questo, eccomi lì su quella panchina che piango e mi dispero. Una signora anziana però, mi prende tra le sue braccia e mi porta con se. È tutto come me lo avevano raccontato... tranne un dettaglio, un minuscolo e apparentemente insignificante dettaglio. Poco più lontano dalla signora che mi tiene tra le sue braccia, c'è un ragazzo. Circa della mia età attuale, è alto, con una felpa nera e il cappuccio alzato. Fissa attentamente la me del passato, come se volesse controllarla. Poi si leva il cappuccio. Lo conosco. Mi ricordo bene il giorno in cui ho visto quel ragazzo: il giorno della morte di mio padre. Uscendo da casa notai questo misterioso giovane, in lui c'era qualcosa che mi attirava e spaventava allo stesso tempo. Era appoggiato al muro della casa di fronte, sempre vestito di nero e mi fissava con magnetici occhi color ghiaccio. I capelli nero corvino gli cadevano sugli occhi e la carnosa bocca rossa si piegava in un mezzo sorriso. Io tirai dritto ma pensai a lui per buona parte della giornata, fino alla nefasta chiamata, dopo quella non ebbi più tempo per pensare a nessun altro che non fosse mio padre.
E invece ora eccolo lì, proprio davanti a me. Mi avvicino a lui, e improvvisamente alza lo sguardo: adesso non guarda più la bambina, guarda me. È l'unico in quella stazione che riesce a vedermi. Ed ecco che mi rivolge quella stana e allo stesso tempo intrigante smorfia, con le labbra piegate in un mezzo sorriso. Dischiude le labbra e mi sussurra -Finalmente.-
Spalanco gli occhi, sono di nuovo nel bagno di Andrea, sdraiata a terra. Sono frastornata e confusa. Mi alzo lentamente barcollando un po' e mi avvicino al lavandino per darmi una rinfrescata. Il dolore è completamente passato. -Eva va tutto bene? Posso entrare?- riprendo fiato. Apro la porta e mi ritrovo davanti Andrea con un'espressione preoccupata sul viso.
-Sì... ho solo avuto un piccolo giramento di testa, niente di che.- sminuisco io.
-Ok, comunque se c'è qualcosa che non va puoi dirmelo tranquillamente, non farti scrupoli.- gli sorrido e ci fissiamo per qualche secondo, fino a quando io non reggo più lo sguardo e dico, rimproverandolo scherzosamente:- Allora ci vogliamo mettere al lavoro o no?-
-Sissignora!- dice lui facendo il segno dell'attenti.
Ci sediamo e continuiamo il compito. Qualche volta si gira e mi guarda, molte volte distolgo lo sguardo per la timidezza ma lui non si scoraggia. È come se mi capisse a fondo, ed è il primo che ci riesce.
Alle 18:00 decidiamo di aver fatto abbastanza. Ma io non me la sento di andarmene così presto, così inizio la conversazione: -Allora di un po' come sono i professori?-
-Non sono di certo i migliori ma nemmeno severi. Diciamo che ci si può convivere serenamente. A parte per la Zilli, quella di matematica, se non ti prende in simpatia sono guai seri...-
-Tu allora non dovresti avere problemi. Quando ti vede le si illuminano gli occhi.- ammicco imitando la prof. Mi fa una linguaccia e poi ride di gusto.
-Sai non è merito mio, penso che abbia una cotta per mio padre.- dice lui con una smorfia di disgusto. Non riesco a trattenere una risata.
-Non c'è niente da ridere, guarda che è una situazione di disagio per me.- mi riprende ironicamente. Ed ecco che pian piano torniamo seri mentre i nostri sguardi si incrociano di nuovo. Questa volta però è lui a distogliere il suo.
-Ehi non ti ho offerto nulla, mia mamma mi ucciderebbe. Allora... cosa ti va? una tè?-
-Si grazie mille.-
-Tua mamma quando torna dal lavoro?- dico io giusto per cambiare discorso.
-In pratica ogni due settimane. Viaggia molto, da quando ha divorziato poi è sempre in giro, penso lo faccia soprattutto per vendetta, sai ha sempre detto che per colpa di mio padre ha dovuto rinunciare a realizzarsi in campo lavorativo. E così adesso pensa solo a quello.-
-Mi dispiace, deve essere dura stare sempre da solo.-
-Ma non lo so, insomma all'inizio sì ma poi ci si abitua alla solitudine.- quanto è vero. Insomma io non ho mai avuto molti amici, ma mi ci sono abituata e le grandi compagnie invece di attirarmi, non mi piacciono per niente .
In quel momento mi suona il cellulare: è la mamma.
-Pronto?-
-Ciao tesoro, dove sei?-
-Sono a casa di un compagno di classe, scusa se non ti ho avvisata.-
-Non fa niente, solo puoi tornare al più presto? Non mi piace immaginarti fuori da sola con questo buio.-
-Certo mamma. A dopo.-
È diventata più protettiva e timorosa dopo la morte di papà, nonostante cerchi di nasconderlo.
-Andrea io dovrei andare.-
-D'accordo.- dice lui con aria dispiaciuta. Voleva forse stare più tempo con me?
Mentre mi dirigo verso l'entrata per prendere lo zaino, mi afferra il braccio con delicatezza.
-Aspetta Eva. Sono stato davvero bene con te.- sorrido a 32 denti senza riuscire a dire nulla per la troppa emozione. Dopo esserci guardati intensamente per qualche secondo, lo saluto e mi dirigo verso casa, o meglio attraverso la strada. Probabilmente ho un sorriso ebete sulla faccia perché la mamma mi chiede incuriosita: - Cos'è quel sorrisetto?-
-Quale sorrisetto?- dico io con aria sorpresa tornando subito seria.
-Bah certo che siete proprio complicati voi adolescenti.- sbuffa lei. -Allora chi è questo misterioso compagno di classe con cui fai il compito?- continua la conversazione.
-Uno spacciatore di fama internazionale bocciato quattro volte. È appena uscito dal carcere sai? - le rispondo io sarcastica. Lei rimane di sasso per qualche secondo e poi scoppia a ridere. -Chi vuoi che sia mamma? Il mio compagno di banco e per questo è anche il mio compagno di lavoro, tutto qua.-
-E dimmi un po' è carino?- chiede con un'espressione maliziosa.
-Mmm insomma...- mento io evitando di ritrovarmi una ragazzina che urla per casa tifando la sua "ship" preferita.
Finiamo lì l'interrogatorio, mangiamo e, dopo aver lavato i piatti, vado in camera mia per leggere un po'. Ma non ci riesco, troppi pensieri vagano per la mia mente: cos'è quel fischio strano che mi capita spesso di sentire? Perché sono svenuta e ho fatto quella strana visione?... La visione: mi viene in mente il ragazzo dal cappuccio nero abbassato e gli occhi color ghiaccio. Il ragazzo che ho visto il giorno della morte di mio padre e che secondo la mia visione era presente anche quel 20 maggio del 2005. È tutto a dir poco strano ma decido di non pensarci e vado a letto. È la prima volta che non faccio quello strano sogno nel quale rincorro me stessa. Questa notte infatti faccio sogni confusi che stento a ricordare. Mi sveglio nel cuore della notte tutta sudata e con il cuore a mille. Ed ecco che ritorna lo strano dolore alla schiena, mi contorco nel letto in cerca di una posizione comoda e probabilmente la trovo perché mi sveglio una seconda volta alle 7:00. Accendo la luce e mi alzo, ma nel letto trovo qualcosa di strano e inaspettato: una candida e lunga piuma.
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Per un battito di ali
ParanormalEva è una normale ragazza di 16 anni con sogni e aspirazioni. Vive con i suoi genitori in una grande città da quando ne ha memoria. Ma un giorno suo padre muore in un incidente. Così Eva è costretta a trasferirsi con la madre in un piccolo paesino...