moonchild - 3:25

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la sofferenza è parte della vita, bisogna accettarla.
semplice a dirsi, non altrettanto a farsi. namjoon lo aveva compreso presto che vivere significa soffrire. cosa volesse significare convivere con il dolore non era stato altrettanto semplice, e non era riuscito a comprenderlo da solo. nemmeno semplicemente. perché la vita dovesse essere sofferenza non lo comprendeva. nessuno chiedeva di venire al mondo, però tutti erano destinati a soffrire, come pagassero pegno per qualcosa. diverse religioni avevano trovato la motivazione dietro tutta la sofferenza, namjoon però non credeva in nulla di quanto affermavano. non gli bastava sapere che secondo uno scritto di dubbia provenienza l'uomo stava vivendo conseguentemente alle azioni di due ominidi tentati da una mela, aveva bisogno di più, necessitava sapere come sopravvivere allo strazio d'esistere in un modo che spinge e insiste. namjoon analizzava la vita partendo da narrativa, poetica e lirica. le opere a cui si era dedicato gli avevano permesso di formulare un'ipotesi: la vita la puoi comprendere solo se senti il vuoto. sentire il vuoto però non era abbastanza, bisognava capirlo. come vivere senza comprendere il vuoto? vi erano modi per sopravvivere al dolore, namjoon aveva scoperto l'aria che animava il tetto del suo monolocale di notte, che si portava con sé la musica verso chissà quale finestra semiaperta e lo lasciava a contemplare la luna, nella speranza che lei lo aiutasse a trovare una strada. la seconda volta che aveva incontrato lo sguardo che lo riportava dall'altra parte del ponte era stata sul tetto. era seduto, gli dava le spalle. «a quest'ora, solo i figli della luna sono svegli». gli piaceva il suono di quelle parole e la voce mangiata dal vento, quindi decise che sarebbe stato un figlio della luna. aveva senso, in fin dei conti. di notte, con solo lei a guardarlo e schiarire l'oscurità che si abbatteva sulla città, era l'unico momento in cui ci si potesse mettere a nudo. un destino infelice, no? nascere per vivere nella tristezza, soffrire per poter apprezzare le bellezze della vita, conoscere il dolore meglio della felicità. in fin dei conti, cos'è la felicità? c'era qualcuno che sapeva rispondere a tale domanda? lo dubitava. cos'è il dolore, invece? una domanda più semplice, certamente. anche un bambino sapeva rispondere. il dolore è avere fame ma non avere le parole per dirlo quando si è appena neonati, dolore è sbucciarsi il ginocchio cadendo a quattro anni, dolore è la prima volta che vieni sgridato, dolore è la prima insufficienza, dolore è litigare con gli amici, dolore è perdere un libro. dolore è il primo lutto. la prima volta che perdi te stesso e non ti ritrovi. la prima volta che senti mamma e papà urlare, la prima volta che ti dicono che non sanno perché si sono sposati. la prima volta che sotto l'albero di natale i regali non ci sono più, la prima volta che l'albero non c'è più. la prima volta che ti siedi al buio e, invece di dormire, piangi. sin da piccoli, il dolore lo si conosce. la felicità, quella non è garantita, ed è figlia del dolore. devi sbucciarti il ginocchio per guarire, devi prendere un brutto voto per apprezzare quello positivo, devi litigare con i tuoi genitori per apprezzare di più i momenti insieme. perché doveva essere così? la vita era così bella, vista da lontano. namjoon aveva visto le vite di molti da lontano: il panettiere che ogni mattina regalava un panino al senzatetto che dormiva alla fermata del bus, il suo amico produttore che ogni giorno aveva un ampio sorriso in viso, il barista del suo posto sicuro che emanava tranquillità. vista da vicino, invece, la vita del barista non era più una bellissima commedia: in fin dei conti anche lui si sedeva sul tetto e parlava con la luna. forse tutte le vite erano commedie a una svista, ma tragedie sotto la lente d'ingrandimento. aveva trovato conforto nel dolore altrui. tutti trovano conforto nel dolore altri. «menomale che non è toccato a me» lo pensano tutti, prima o poi. sapere che qualcuno sta peggio di noi é confortante. forse non siamo così soli e irrecuperabili come pensiamo, forse c'è veramente di peggio. namjoon aveva trovato quel di peggio nel sorriso scheggiato del figlio della luna, il figlio della luna aveva trovato quel peggio in namjoon. guardavano la luna, rimanevano seduti al buio. durante il giorno, nel suo luogo sicuro, cercavano la luna nello sguardo dell'altro. perché la vita era sofferenza e vivere era peggio di morire, ma così difficile da abbandonare. smettere di soffrire, concedersi la pace eterna, era così difficile. le aveva contate, namjoon. era salito sul ponte dodici volte, si era seduto sulla ringhiera dodici volte. voleva morire, sì. lo sapeva, ne era certo. sapeva che l'incontro con l'acqua sarebbe stato il ritorno ai colori e ai sogni, alla leggerezza che lui non aveva mai chiesto gli venisse strappata. però poi incontrava quegli occhi. non gli diceva nulla, mai, aspettava solo, con il mento sulla ringhiera, che namjoon si lasciasse andare. «nessuno merita di morire da solo». e namjoon voleva morire, ma inspiegabilmente si ritrovava a vivere. a vivere con ardore, facendosi domande, cercando risposte. e quindi perché il dolore era così sofferto, perché voleva sfuggirgli, se era proprio lui a tenerlo in vita? la luna era nei suoi occhi, nel suo vissuto. la luna era in tutti, tutti erano la luna di qualcuno. davanti a un bicchiere di caffellatte, namjoon aveva trovato un senso alla sofferenza nella vita, ma non all'amore per la sofferenza che lo spingeva a vivere.

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