5 - Più forte di me

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Lo sento, Giancarlo, anche se fa di tutto  per parlare a bassa voce. Sono cinque minuti che sto provando ad aprire sto cazzo di portoncino, chiave del cazzo che non vuole saperne di entrare, e intanto li sento che confabulano.
“Ha insistito per venire qui, non ha voluto sentire ragioni.”
De Santis fa una pausa poi si passa una mano sulla nuca a massaggiare i capelli per esprimere il suo disagio.
“Non credo ci sia modo di convincerlo a tornare a casa signorina Rìccioli, mi dispiace”
Ha ragione. Col cazzo che ci torno a casa, da quella furia bionda che sarà incazzata nera. Che poi, cazzo, mica l’ho fatto apposta, a rovesciarle il vino addosso, mi sono voltato con troppo slancio per salutare uno che poi ho capito che non conoscevo nemmeno e ciao, vestito di Dolce&Gabbana inzaccherato.
Capita, che sarà mai, le tintorie servono per questo.
D’altronde ad invitare un uomo col cuore spezzato a una rassegna di vini si sa a cosa lo si condanna.
Però quello che mi ha invitato non lo sapeva che ho il cuore spezzato.
Cosa vuoi che sappia quello, cosa, che se valesse la teoria di De Andrè dovrebbe essere uno stronzo epocale e invece è solo cretino.
E entra chiave del cazzo, dai…che tanto a casa non ci torno, non ci penso nemmeno, Giancarlo può dire quello che gli pare, ma io resto qui.
Che anche se non la vedo da due mesi, da quella sera del cazzo che vorrei non fosse mai esistita, sono sicuro che lei mi farà restare.
Voglio restare qui, voglio Silvia, che è morbida e non urla e mi ascolta e risponde quando le parlo e sorride. Dio, quando mi sorride, e mi scosta i capelli dalla fronte, dopo, e fatica a riprendere fiato… io…
Cazzo, entra chiave maledetta che mi guardano e sto facendo la figura del coglione
E no, non me ne frega un cazzo che mi abbia detto che non mi vuole. Un cazzo. Un cazzo.
Mi arriva di nuovo un brandello di conversazione
“Siamo qui sotto se ha bisogno, le lascio il numero del cellulare”
Non avrà bisogno di voi. E nemmeno io, perché se sto cazzo di chiave gira e riesco ad entrare è fatta.
Sarò al sicuro, lontano da tutto e da tutti. E con lei.
Silvia armeggia col suo smartphone poi viene verso di me.
La voce di De Santis la segue.
Oh non molla mai, quello, un cagnaccio assurdo.
“Gli faccia bere molta acqua, mi raccomando, e gli dia un'aspirina. Se non ne ha in casa mando qualcuno a prenderle”
Col cazzo l’acqua, De Santis, sai dove te la puoi infilare l’acqua? E anche le aspirine. E dai, dai, chiave maledetta…
Silvia mi appoggia la mano sulla spalla e un istante dopo non sento altro che il suo profumo. Dio che buono che è.
Sorride mentre mi leva dalle mani il mazzo di chiavi con cui sto trafficando.
“Mi spieghi come pensi di aprire il mio portoncino con le chiavi di casa tua?”
Che bella voce che ha. E che bel sorriso. Non ti posso spiegare niente Silvia, niente, nemmeno il bisogno che avevo del tuo sorriso e della tua voce. Io non …
“Dai, lascia fare a me”
Si aggiusta i capelli dietro l’orecchio, con quel suo gesto elegante e sicuro insieme e pesca le chiavi dalla tasca dei calzoncini.
Apre facilmente e da quel momento sono talmente rapito dal muoversi dei suoi fianchi davanti a me, e dalla voglia che mi sta salendo addosso che quasi non mi accorgo di aver percorso tutta la scala.
Deve essere scesa in fretta, quel rompicoglioni di De Santis  deve averle messo premura, perché ha lasciato la porta dell’appartamento aperta: dovrei scusarmi con lei, non sarei dovuto venire qui, non sarei dovuto uscire e non avrei dovuto bere, non avrei nemmeno dovuto fare il Presidente del Consiglio, così non mi avrebbero assegnato quella scorta opprimente e quel caposcorta così zelante, ma di tutti i pensieri che si arruffano in testa non ne concretizzo nessuno, reagisco solo alla voglia che ho di lei, chiudo la porta con un calcio, le afferro il polso e me la stringo addosso. Resta qui Silvia, ti prego. E fammi rimanere con te.
Farfuglio il suo nome, mentre la faccio appoggiare al muro, voglio baciarla e spogliarla e scoparla subito.
Cazzo come la voglio, non ho mai voluto nessuna come lei, mai.
Lei malgrado la mia irruenza, si sottrae alla mia bocca, mi regala un sorriso tenero e mi accarezza una guancia.“
“Sei ubriaco”
Forse, un po’. Anzi parecchio. “Può darsi. Ma non cambia le cose, voglio scoparti da ubriaco, come da sobrio.”
La tengo ancora contro di me e cerco di  farle alzare le braccia sopra la testa, con i denti mordo lo scollo della maglietta e tiro per abbassargliela, Cristo che profumo che ha… ma lei si divincola, con agilità e decisione. È più forte di me, lo sto imparando a mie spese e non solo da stasera. È dannatamente più forte di me.
Sguscia fuori dal mio abbraccio, ma non è arrabbiata, anzi mi porge la mano con fare materno “Andiamo di là dai, hai bisogno di riposare”
Mi guida in camera da letto e dopo che mi sono seduto mi aiuta a togliere la giacca. Ridacchia mentre mi allenta il nodo della cravatta e mi aiuta a sfilarla. Poi con gesti rapidi e lievi mi sbottona il colletto della camicia.
“Il tuo caposcorta dice che devo farti bere molta acqua, e darti un’aspirina”
Provo ad afferrarle i fianchi ma non sono sufficientemente veloce, lei si è già allontanata per poggiare la cravatta e la giacca sulla poltroncina vicino al letto. “Fanculo DeSantis e le sue teorie del cazzo. Non voglio l'acqua, voglio te”
Le prendo di nuovo la mano e cerco di farla sedere sulle mie ginocchia, il cazzo mi tira in un modo spaventoso e voglio lo senta, ma lei si sporge per prendere il cellulare che ho poggiato sul letto e lo appoggia sul comodino.
“Devi provare a dormire”
No, Silvia non ci stiamo capendo. Non voglio l’acqua, non voglio l’aspirina e non voglio dormire, voglio stare con te, voglio fare l’amore, più di ogni altra cosa e poi voglio dirti che non posso fare a meno di te, che qualcosa mi ha fatto male in mezzo allo stomaco, ogni minuto che ho passato senza di te e io, davvero, sento di non poter più sopravvivere a questa mancanza. Nel frattempo lei si è liberata delle mie braccia che le stringevano i fianchi e mi ha spinto sul letto, aiutandomi a distendere anche le gambe. Ora è seduta vicino a me e le sue dita sprimacciando con cura il cuscino vicino al mio viso, per farmi stare più comodo. Cristo, che bella che è…per attimo immagino di vederci da fuori e vorrei con tutto me stesso cristallizzare questo momento così, riassumere la nostra storia in questa immagine di dolcezza e di cura, di noi, così sinceri e arresi nell'oro soffuso dell’abat-jour sul comodino. Devo essere davvero ubriaco perché di colpo mi sta venendo da piangere al pensiero che invece nulla testimonierà ciò che siamo stati insieme, che al difuori dei letti e delle parole che abbiamo diviso non esista traccia di noi.
“Aspetta, prima ascoltami, voglio dirti una cosa”
Riesco ad intercettare la sua mano, e la trattengo vicino a me. Non sono sicuro di quanto riuscirò a spiegarmi, vederla vicino a me è così bello che di nuovo, faccio fatica a trattenere le lacrime e per provare a nasconderle , sorrido, come quel cretino rincoglionito dal cuore spezzato che sono.
“Silvia ti prego, è importante, anche se non trovo…”
“Me lo dirai poi, adesso riposati”.
Mi sorride, e mi scosta i capelli dalla fronte, quel gesto così suo che potrei morire di gioia e rimpianto. Sorride.
“Ti risparmierò la tortura dell’acqua e dell’aspirina ma tu devi assolutamente cercare di dormire.”
“Ti prego”
Ci provo una volta ancora perché non sono così certo che ci sarà un poi, per noi due, ma non so quasi più resistere al peso che mi grava sulle palpebre e le sue dita tra i capelli sono così, così...
“Silvia ascolta…
“Shhh…”

 
Mi sveglio ma non del tutto, nel cuore della notte. Sono solo, di lei non ho che il profumo che sale dal suo cuscino, intatto accanto al mio.  Anche la parte di letto al mio fianco è intatta, deve essere rimasta a dormire in soggiorno.

Provo ad alzarmi, vorrei raggiungerla e parlarle, devo dirle il bisogno di lei che ho dentro, quello infinitamente più grande di quello fisico, ma la testa mi scoppia e non riesco nemmeno a mettermi seduto. Abbraccio il suo cuscino e mi lascio avvolgere dalla fragranza che emana.
È un profumo che non lo è, fatto di odori, sensazioni tattili, ricordi, sapori e sorrisi.
Un crogiuolo di aspettative soddisfatte, ansie sopite, ritorni a casa. Il profumo di me stesso, nel posto in cui aspetto di essere da tutta una vita, mescolato a quello di ciascun posto in cui mi sono sentito perfetto: il giardino di mia nonna, la spiaggia del mio primo castello di sabbia, il mare del mio primo bagno, il primo gemito strappato a una donna, il primo vagito di mio figlio. Quel posto che ciascuno di noi ha dentro ma che non tutti hanno la fortuna di trovare, e che non tutti quando lo trovano hanno la possibilità di poter stringere forte.

Le prime luci dell’alba mi strappano al sonno, qualche ora dopo. Lo stordimento dell’alcol se ne è andato ma la mente è ancora impastata dalle sensazioni provate ieri sera e nella notte appena trascorsa e ogni cosa mi rimanda al bisogno di lei.
Un bisogno che trascende ogni altra cosa, per cui sono disposto a perdere una parte di me. Un bisogno che è tenerezza e desiderio insieme, che non immaginavo nemmeno si potesse provare.
Devo dirglielo
Lei è seduta al tavolo minuscolo del living, una gamba ripiegata sotto il sedere, i cappelli trattenuti da un elastico, la maglietta che indossava ieri sera a sfiorare le cosce nude. Ha una tazza fumante vicino e il tablet acceso davanti, lo sguardo concentrato su ciò che sta scorrendo. Mi sente arrivare e mi raggiunge con gli occhi. Sorride guardandomi, anche se Dio solo sa come sono conciato. “Come ti senti?”
“Un cretino. Col mal di testa”
E sorrido anche io. Mi sento la bocca impastata e ho la sensazione che due scoiattoli incazzati stiamo bisticciano dentro il mio stomaco, so di avere la barba lunga, di essere spettinato e mi sento gli occhi gonfi, però sorrido. Perché sono qui, con lei.

Afferro una sedia e la avvicino alla sua, poi nascondo il viso nel suo collo e resto lì, a respirarla. Dopo qualche minuto la sento posare il tablet e appoggiarsi allo schienale. La sua voce arriva pochi secondi dopo.
“Giuseppe”
Parlo ad occhi chiusi, perduto nel suo odore.
“Torniamo a vederci, ti prego. Non parlerò più di stare insieme, se non ti va. Ma ti prego, Silvia io...”
Si scosta piano, si alza e si allontana. Cerca l’altro lato del tavolo, poi si appoggia i palmi e prende un respiro profondo. Cerco di non pensare al freddo che sento, privato come sono del contatto della sua pelle e la guardo. Qualcosa che assomiglia al dolore le vela lo sguardo, ma quando mi risponde la sua voce non ne reca tracce.
“Io me ne vado, Giuseppe. Ho trovato un lavoro, parto tra due giorni.”
E mi indica la parete della stanza dietro di me, quella su cui appoggia il divano. C’è una coperta arancione appoggiata sopra, che credo abbia usato per riposare e allineate con cura vicino al bracciolo di destra un paio di trolley e una borsa da viaggio.
Quasi non sento ciò che mi dice, occupato come sono ad accettare ciò che sto vedendo
“…è un ospedale universitario prestigioso, forse il più prestigioso del paese e quando mi hanno contattata stentavo a crederci, sono…”
La voce, le parole, le frasi mi rotolano fuori dalla gola quasi con una loro volontà.
“Resta, ti prego. Troviamo qualcosa qui a Roma, sono certo che un posto di pari prestigio se chiedo, se… posso cercare e… Non sapevo, non immaginavo, anche se è giusto che…”
So che ho sbagliato a dirlo, lo capisco un istante dopo che mi è scivolato fuori dalla bocca. Come posso essere così preso di lei e sbagliarle tutte in questo modo?

Le sfugge un piccolo sospiro di rassegnata consapevolezza.
“Non ti ho detto niente del fatto che avevo inviato in giro il mio curriculum perché sapevo che tu avresti detto una cosa come quella che hai appena detto.”
Sorride, ma è decisa, determinata.
“E non è che non apprezzi il fatto che tieni a me al punto da propormelo.
Ma lo voglio fare io, con le mie forze. È davvero importante per me. Spero che tu riesca a capirlo”
Cerca la mia mano attraverso il piano del tavolo, e la distanza che deve percorrere prima che le sue dita trovino le mie è già il preludio della lontananza che ci sarà tra di noi, da lì a pochissimo.
Riprende a parlare, perché lei è fatta così, non lascia nulla di incompiuto, o di non chiarito.
“E se te lo avessi detto e tu ti fossi adoprato… non avrei mai saputo se ho avuto quel lavoro perché me lo sono guadagnato o perché tu mi volevi qui.

È stato bello tra noi, Giuseppe, ma credo sia giusto che finisca così.”

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