Capitolo 25

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“Giù! Giù! Giù! Giù!”
Damiano buttò giù l’ennesimo shot di tequila tra le urla divertite degli amici. Lui e Thomas sbatterono i bicchieri sul tavolo all’unisono con un tonfo sordo, pulendosi la bocca con il braccio e guardandosi divertiti. Sentì il liquore scendere veloce e scoppiargli in gola come una detonazione. Niente sale. Niente limone.
“Uuuh uh!”
Gridò, prendendo una boccata della sigaretta dell’amico, mentre sentiva distintamente tutti i danni che quella serata di bagordi stava infliggendo alle sue corde vocali. Se lo avesse visto la sua vocal couch lo avrebbe di sicuro bacchettato: non c’era nulla di peggio dell’alcol, del fumo e del freddo per lui, che in quel momento tentava di mixarli tutti e tre per un cocktail ancora più deleterio.
Per una sera voleva comportarsi come facevano tutti, senza rintanarsi in camera sua a fare il nonno della situazione. Voleva celebrare il concerto appena finito e soprattutto voleva disperatamente smettere di pensare.
Victoria non era con loro, l’aveva intravista a inizio serata in quella suite di lusso ma si erano deliberatamente ignorati come del resto stavano facendo da ore, da quando lei se n’era andata dal loro camerino, lasciandolo sconvolto a digerire la verità.
Damiano si sentiva come svuotato e quel vuoto aveva bisogno di essere riempito di gente, di risate, di felicità effimera e alcol, fiumi di alcol per allontanare la paura e quel senso di inadeguatezza, che sentiva stringergli il petto.
Un bambino.
Non poteva nemmeno pensarci senza sentirsi male. Lui non lo voleva un bambino. Lui era ancora un bambino, per quanto si sentisse maturo e responsabile, non si sentiva pronto. E poi non con Vic, con la persona più inaffidabile sulla faccia della terra. Ma lo pensava veramente o era solo una scusa che si dava insieme a tutte le altre?
“Daje Damià, sesto round!”
Thomas stava per svenire, ne era quasi certo. Lo vide vuotare il liquore, che per metà uscì dai bicchieri, andando a bagnare il tavolo e il suo telefono.
“E che cazzo, Tony!?”
“Scusa!”
“Ma porca puttana, stà attento!!”
Si alzò di scatto per cercare di asciugarlo con l’orlo della maglietta.
“Ma cazzo…”
Doveva aprirlo ed assicurarsi che la batteria fosse a posto. Non che fosse un grande problema poteva sempre comprarne uno nuovo ma aveva tutto lì dentro e soprattutto quando era lontano da casa, l’idea di perdere le foto, i numeri e la possibilità di comunicare, lo faceva sentire un po’ perso.
Si avviò barcollando verso la porta.
“’Ndo cazzo vai, Chicco?”
Gli chiese Leo, vedendolo instabile sulle gambe.
“Vado ‘n attimo in camera mia, arrivo subito!”
“Sì bravo, mò guarda ‘ndo stà Vic, che nun se vede da dù ore…”
“Sarà co’ l’omo suo!”
Rispose con stizza, richiudendosi la porta alle spalle. Una volta nel corridoio tirò un sospiro di sollievo: quanto casino potevano fare quei dieci coglioni tutti messi insieme? Si trattava solo di un piccolo entourage ma poteva scommettere che quell’hotel si sarebbe ricordato del loro passaggio, come di una invasione di locuste.
Cercò di orientarsi, guardandosi intorno con espressione confusa. Era abbastanza certo che quel piano fosse tutto riservato a loro per evitare intromissioni di fans molesti ma ormai era così abituato a cambiare hotel ogni giorno, che non ricordava esattamente quale fosse la sua stanza. O forse era l’alcol a fargli quello strano effetto? Ad ogni passo capiva di aver esagerato un po’ troppo. Gli piaceva quella sensazione di leggerezza ma quella notte tutto aveva un sapore diverso perché, per quanto cercasse di non pensarci, la sua mente ricadeva sempre là.
Frugò nella tasca dei jeans, cercando la chiave della sua stanza. Era sicuro di averla già passata.
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Ecco, perfetto! Doveva tornare indietro.
A quel punto la sua attenzione fu attirata da qualcosa. Un suono sommesso, come lo squittio di un animale. Che cazzo poteva essere?
Si guardò intorno confuso e poi si rese conto che proveniva dalla portafinestra aperta in fondo al corridoio proprio alle sue spalle. Chi cazzo era che teneva la finestra aperta alle quattro di notte in un posto del genere? Non c’era davvero freddo ma la corrente che sentiva ad ogni passo, gli faceva pentire di essere uscito senza una felpa.
Pensò di lasciar perdere, in fondo a lui importava solo del telefono che ad ogni minuto diventava più appiccicoso tra le sue mani. Poi ci ripensò, lasciandosi vincere dalla curiosità e percorse a ritroso il corridoio, facendosi guidare da quel suono. Voleva vedere con i suoi occhi di che cosa si trattasse, voleva sapere se era tutto frutto della sua mente annebbiata dall’alcol.
“Ehi…? Who’s there?”
Chiese, sentendo montare una certa angoscia. A quel punto il suono si interruppe bruscamente. Damiano si affacciò con timore e per un attimo non vide nulla, buio com’era su quel grande balcone in stile signorile.
Poi scorse un fugace luccichio sulla sua destra ed i suoi occhi iniziarono ad abituarsi all’oscurità. Cercò di distinguere la sagoma accucciata a terra e la vide ritirarsi ancora più verso la parete.
“Ehi…?” Ripeté più dolcemente.
“No…”
Riconobbe Vic e sentì come una fitta allo stomaco. Era la sua voce ma sembrava così diversa, più roca, distrutta dal pianto. Ora che riusciva a vederla meglio, scorgeva il suo profilo nascosto dal cappuccio di quella enorme felpa grigia, che ora riconosceva essere uno dei mille abiti che le aveva prestato proprio lui.
“Vic?! Che ci fai qui?”
Il suo tono non era più dolce, anzi era quasi accusatorio. Si supponeva che fosse in camera con Luigi o magari in qualche club gay della città a festeggiare con le sue amiche.
Damiano avrebbe voluto avvicinarsi ma non sapeva quanto lei avrebbe apprezzato e dopotutto lì sopra era piuttosto alto. Dov’erano? Al terzo piano?
Vic si alzò di scatto, come spaventata dalla sua presenza inaspettata. La vide barcollare pericolosamente e fu costretto a ricacciare indietro le vertigini per sorreggerla.
“Non toccarmi!”
Troppo tardi. Erano vicini ed ora potevano leggere a vicenda l’espressione spaventata sul volto dell’altro.
“’Ndo sta Luigi? Non eri con lui?”
“No… se n’è andato… gli ho chiesto di andare via…”
Damiano si rese conto che qualcosa non andava. Non era solo il pianto. Le sollevò il viso per guardarla in faccia.
“Che cazzo hai fatto? Hai bevuto??”
“No…” Si affrettò a rispondere lei con la voce rotta, evitando di guardarlo e cercando di rientrare in corridoio.
“Sì invece.” Damiano scorse la bottiglia di vodka abbandonata a terra e per poco non si sentì mancare.
“Anche tu…” Rispose la ragazza, biascicando quelle parole con una lentezza impressionante.
“Ma sei scema?? Victò, cazzo… sei impazzita? Che te sei bevuta?” La stava scuotendo senza rendersene conto, come se quel gesto le potesse far sputare la verità insieme a tutto l’alcol.
“E allora? Cosa?? Chi se ne frega se ho bevuto! Chi? Tanto che cosa cambia ormai?”
Vic stava gridando, aveva il volto arrossato dal pianto e gli occhi ancora lucidi e di nuovo pieni di lacrime. Gli sgusciò tra le mani per piegarsi e recuperare la bottiglia ancora per metà piena. Damiano cercò di afferrarla prima che la portasse alla bocca ma i suoi riflessi erano ancora rallentati, nonostante lui si sentisse sobrio tutto d’un colpo.
Vic buttò giù un sorso di liquore con un odio vivo e pungente impresso nello sguardo.
“Che stai cercando di fare? Me vòi punì?”
Questa volta l’uomo riuscì a prendere la bottiglia e ad allontanarla da lei.
“Te?? Voglio punire te?” Rise lei, scuotendo la testa e spingendo lo sguardo verso la città illuminata all’orizzonte. “Perché a questo mondo gira sempre tutto intorno a te? Spiegamelo!”
“E allo…”
Le sue parole furono interrotte dalla porta della suite che si apriva, lasciando uscire un paio di ragazzi del loro team, insieme alla musica e al vociare proveniente dall’interno. Entrambi si appiattirono istintivamente contro il muro per non farsi scoprire ed aspettarono che gli amici prendessero l’ascensore per andare chissà dove.
“Vieni, annamo in camera che qui se gela."
Tentò di convincerla a rientrare. La verità era che più che il freddo o la paura di essere scoperti, Damiano aveva la brutta sensazione che lasciare una Victoria così ubriaca su un balcone così alto, fosse una terribile idea.
Vic si divincolò e lo aggredì con foga forse eccessiva. Era sconvolta. Ubriaca e fuori di sé.
“Ma me vòi lascià perde? Che t’ho fatto de male pe’ famme odià tanto? So cazzi mia, ok!? Te l’ho già detto… risolvo tutto da sola, nun te metto nei casini… me conosci, me so arrangià…”
Oddio. Non poteva davvero pensare quelle cose. Non era ciò che lui intendeva per lo meno.
“Ma che stai a dì? Non m’hai capito oggi.”
“Io ho capito che la pensamo uguale io e te. Ho solo fatto ‘na cazzata a dirtelo. Mò torna de là che t’aspettano.”
Sarebbe sembrata quasi convincente se non fosse stato per la voce impastata e lo sguardo che non riusciva a stare fermo. La vide compiere un paio di passi verso l’interno e dovette sorreggerla prima che cadesse rovinosamente sul gradino, che portava al corridoio.
“Mò te metto a letto.”
“Non ne ho bisogno… me ce metto da sola a letto! E damme qua!”
Damiano sollevò la bottiglia appena in tempo. Non le avrebbe fatto bere un sorso di più perché, benché sapesse che era stato lui il primo a dirle di sbarazzarsi di quel bambino, ora che lo pensava in pericolo, sentiva che era sbagliato.
Recuperò la chiave dalla tasca e la girò nella serratura, guardandosi intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno. Entrare nella stessa stanza poteva sembrare una consuetudine per loro due ma adesso era quasi pericoloso.
Vic si guardò intorno spaesata.
“Ehi, ma non è la mia camera questa!”
“No, è la mia. Stenditi dai… Devi bere dell’acqua e farti una bella dormita.” Avrebbe voluto chiamare un medico ma sapeva quanto era inopportuno ed ipocrita quel pensiero ormai.
“Non devo fare proprio un cazzo perché me lo dici tu!”
Vic si tolse la felpa, rimanendo nuda con solo un paio di jeans, che ci misero un secondo a scivolare anch’essi sul pavimento. Damiano era immobile, instupidito davanti a lei, come se non avesse mai visto quel corpo tanto familiare. Si costrinse a distogliere lo sguardo, come non aveva mai fatto in passato. Qualcosa era cambiato e non era il fatto che si erano giurati di non finire mai più a letto insieme, era piuttosto il fatto di vederla con occhi diversi: che lui lo volesse o no lì dentro c’era un’altra persona ed era assurdo pensare che fosse il frutto della loro unione e che lo stavano per eliminare, come una sorta di brano che non funzionava abbastanza per il loro album.
Tentò di scacciare quei pensieri, che lo facevano sentire debole ed aprì il frigobar per recuperare una bottiglietta d’acqua.
“Sei stata un’irresponsabile, Victò! Che cazzo t’è saltato in mente, dico io!? Nun pòi bere…”
“Ma quanto se’ coglione?? Quanto? Ho tempo sì e no due settimane... Che cazzo te ne frega?? Che senso ha fare gli ipocriti adesso…?”
Stava ridendo e piangendo nello stesso momento. Damiano non aveva nemmeno idea del subbuglio che doveva esserci nella sua anima in quel momento, tutto quello che sapeva era che ora Vic non aveva filtri e non aveva nemmeno muri, dietro ai quali ripararsi da lui. Quella era lei, nuda, distrutta, stanca e senza maschera alcuna.
Si avvicinò, intenerito e sconvolto dall’autenticità di quelle parole.
“Mi dispiace… io non…”
Vic non lo ascoltava nemmeno, era già corsa in bagno ed ora era piegata in due sul water.
“Amò…?!” Damiano la seguì, sedendosi per terra accanto a lei e le scostò i capelli, tenendoli ben stretti sulla nuca. Non era una consuetudine tra di loro, forse non l’aveva mai davvero vista sentirsi male a quel modo. Magari era successo il contrario, che fosse lei ad assisterlo quando dopo qualche serata aveva esagerato con l’alcol.
Le accarezzò la schiena, rendendosi conto che quella doveva essere una sorta di routine per lei. Quando Vic sollevò la testa, si sentì male nel vederla così, con il viso paonazzo e rigato di lacrime, che probabilmente lei non aveva nemmeno sentito scendere.
“Va meglio?” Le chiese con dolcezza, asciugandole il volto con un asciugamano pulito.
Lei negò, nascondendo la testa nel suo abbraccio.
“Scusame… scusa… è che non ce la faccio più…"
La sentì a malapena farfugliare tra i singhiozzi.
“Lo so… me lo dovevi dì, Victò! Me lo dovevi dì subito!”
Vic stava piangendo in silenzio senza più vergogna. Si era sentita così sola e confusa fino a quel momento. Rimasero in silenzio così per qualche minuto, aspettando che lei si calmasse tra le sue braccia, fino a che non la sentì mormorare piano.
“Io non voglio farlo…”
Lo aveva ammesso finalmente. Lo aveva confessato più a se stessa che a lui e lo aveva fatto solo perché non aveva il pieno controllo delle proprie emozioni.
Damiano sospirò, baciandole i capelli e appoggiò la testa contro le piastrelle fredde della parete dietro di lui. Era una situazione così incasinata da non lasciarlo respirare. Lui non lo sapeva, non sapeva più cosa voleva. Se davvero non desiderava quel bambino, allora perché si preoccupava tanto per lui e per Vic? Forse perché semplicemente era un essere umano e anche uno di quelli particolarmente sensibili.
“Ma che alternative abbiamo?” Le disse baciandole di nuovo la tempia. Non era sicuro di averla mai vista così fragile, lei odiava quel tipo di persone, odiava farsi consolare.
“Nessuna. Non ne abbiamo nessuna…” Vic aveva una voce lamentosa che non le apparteneva. Si asciugò il viso con la mano e sciolse l’abbraccio per alzarsi sulle gambe malferme.
“Aspè, t’aiuto.” Damiano cercò di sostenerla fino al lavandino, dove l’aiutò a legarsi i capelli e a sciacquarsi il volto e la bocca. Normalmente avrebbe avuto il suo spazzolino da denti lì accanto ma non ora. Non più. Ed era così strano che non ci fossero le sue cose sparse in giro per la stanza come succedeva sempre quando erano in viaggio. Tutto stava cambiando velocemente, anche se loro non lo volevano davvero.
“Ora torno in camera mia… sto meglio, grazie…” Raccolse la felpa appallottolata in fondo al letto e la infilò velocemente. “Questa la faccio lavare e te la restituisco in settimana, ok? Sà de vodka…”
La annusò, arricciando il naso.
“Puoi tenerla… Tienila.” Non voleva che se ne andasse via. Damiano era ancora lì fermo tra il bagno e la stanza da letto e cercava un appiglio qualsiasi per non lasciarla andare. Aveva bisogno di stringerla a sé e di dormirle accanto come avevano fatto migliaia di volte. Aveva bisogno di calmarsi ed era assurdo che fosse proprio lei l’unica persona che sapeva farlo così bene.
“No, te la ridò pulita. Notte.”
“Notte.”
Vic era sulla porta, scalza, con i pantaloni e le scarpe in mano. Si affacciò con cautela nel corridoio e sgattaiolò fuori con passo leggero.
Damiano si sedette ai piedi del letto, guardandosi intorno con aria desolata. Il telefono era abbandonato lì sul mobile, ancora tutto appiccicoso ed irrimediabilmente rovinato. C’era puzza di vodka ovunque in quella stanza, la bottiglia mezza vuota era appoggiata sul comodino. La prese e la versò nel lavandino, lasciando scorrere l’acqua per qualche secondo. Poi sollevò lo sguardo per incontrare i propri occhi nel riflesso dell’enorme specchio.
Lei non voleva farlo. Le sue parole disperate gli riecheggiavano nella testa, gettandolo nello sconforto. Ma che altro potevano fare? Dovevano parlarne con Thomas ed Ethan, questo era doveroso. Ma con Giulia? Come avrebbe fatto con lei? Aveva detto a Victoria che non voleva lasciarla ora che stavano costruendo qualcosa di serio e duraturo. Ed era vero. Il loro rapporto stava vivendo un nuovo inizio ed era sicuro e appagante e lui sentiva di poter essere una persona migliore accanto a quella ragazza così matura e meravigliosa. E Victoria che posto aveva in quel quadretto? Nessuno. Proprio nessuno. Lei era voluta tornare ad essere l’amica casinista e superficiale e questo era il posto che lui le aveva dato, almeno fino a quella sera. Ma perché non poteva essere sempre così naturale, consapevole e fragile? Perché lo combatteva così tanto e lo allontanava con sgarbo?
Senza rendersene conto afferrò la maniglia, già nel corridoio pronto per correre davanti alla stanza di lei. Non fece nemmeno un paio di passi che si scontrò con i suoi occhi azzurri. Era lì di fianco alla porta, immobile. Non se n’era mai andata.
Non dissero nulla. Le loro anime si scontrarono per un attimo, una collisione improvvisa e dolorosa, che li fece scoppiare entrambi in un pianto inaspettato.
Damiano la attirò a sé, trascinandola di nuovo nella sua stanza e la strinse forte, così forte che dovette controllare se respirava. Rimasero fermi in quel modo per qualche minuto, perdendo la cognizione del tempo e dello spazio. Poi Damiano le tolse le scarpe e i jeans dalle mani e le sfilò delicatamente la felpa, indugiando con lo sguardo sul suo nuovo corpo. La sfiorò con dolcezza, domando a stento l’eccitazione crescente e la condusse a letto, dalla sua parte, alla sua destra come sul palco.
Victoria non oppose resistenza, lo guardò spogliarsi e gli fece spazio accanto a sé, accogliendolo nel suo abbraccio caldo, sulla sua pelle così liscia e morbida. L’uomo si abbandonò come un bambino a quel contatto e si cullarono a vicenda fino a che non scivolarono entrambi tra le braccia di Morfeo.

Amandoti 5 (What if...?) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora