VI. Rosso

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«Sta zitta.» mi sussurra una voce roca alle mie spalle. La sua presa attorno al mio braccio si fa sempre più densa.
I nostri corpi sono uniti, quasi a formarne uno.
Senza dire una parola si nasconde dietro ad un albero trascinandomi con se.
Mi fa girare su me stessa facendomi voltare nella sua direzione, con ancora la sua mano sulla mia bocca.
Finalmente lo vedo. Vedo quegli occhi color ramato, è la seconda volta che mi capita di incrociarli quest'oggi, ma non mi sarei mai aspettata che la volta successiva sarebbe stata mentre fuggivo nel bel mezzo di un bosco.
I miei occhi si sbarrano. Cento domande iniziano a subentrarmi come una nube nella mia testa.
Si poggia un dito sulle labbra facendomi cenno di fare silenzio.
Scuoto la testa, cercando di dimenarmi dalla sua presa, ma invano mi ritrovo ancora più appiccicata a lui.
«Promettimi che una volta tolta la mano non ti metterai ad urlare.» sbotta.
Annuisco frettolosamente con il cuore che mi palpitava ansioso nel petto.
Appena la sua mano abbandona le mie labbra ne approfitto per gridare aiuto, ma ecco che nuovamente mi tappa la bocca e le mie grida diventano solo futili lamenti ovattati.
«Se vuoi restare viva devi fare silenzio.» sbotta.
Sbarro gli occhi. Questo pazzo mi vuole ammazzare?
«Non voglio ucciderti. O per lo meno, non io.» farfuglia come se avesse letto nella mia mente.
«La belva è nei paraggi.» mi sussurra poi all'orecchio.
Cosa intende?
Lo guardo dritto negli occhi, il mio sguardo è impaurito, preoccupato, confuso, mentre il suo è tranquillo, distaccato, cupo.
Inizio a sudare freddo, la testa mi gira e la vista mi si offusca. Athan Romanov, l'uomo dinanzi a me dagli occhi scuri, che mi tiene salda a se, d'improvviso prende le sembianze del Professor Darcy, i suoi occhi blu sono assottigliati e mi guardano con aria di sfida, confusa gli accarezzo il volto, ma la mia vista è troppo sbiadita per capire chi ho realmente difronte, poi ancora una volta il suo volto muta, adesso vedo mio padre che mi sorride beatamente, quasi a tranquillizzarmi, mi accarezza il volto e mi sussurra:
«Dormi Isabell, stai solo sognando.»
Chiudo gli occhi e mi dimeno cercando di liberarmi dalla sua presa.
«Calmati.» sibila.
Apro di scatto gli occhi e mi ritrovo stesa sul mio letto, fra le braccia di mio padre che mi accarezza la fronte sudata.
Mi guardo attorno incredula, indosso la mia solita camicia da notte, fuori è buio, all'orizzonte si intravedono le prime luci dell'alba.
«Stavi facendo un incubo piccola mia.» mi rassicura mio padre.
Il cuore ancora mi palpita veloce nel petto.
Sono stordita, confusa, la testa mi gira e ho il fiato corto.
Se era solo un incubo, perché sembrava così reale?
«Ma papà, come ci sono finita qui?» gli domando corrucciata.
«Sei svenuta in classe, ti ha portata qui il tuo professore, da allora stai dormendo come un sasso.» farfuglia porgendomi un bicchiere d'acqua.
«No, non è possibile, io dopo sono andata a passeggiare nel bosco.» sbotto.
«Isabell piccola mia, avrai sbattuto forte la testa, ti assicuro che sei stata qui per tutto il tempo.» afferma accigliato.
«Ma io...» esito, facendo uscire solo parole incompiute dalle mie labbra.
«Era solo un incubo Belle. Adesso riposati, sarai ancora molto stordita. Te lo assicuro, domani starai meglio.» sibila cercando di rassicurarmi.
Mi massaggio la testa cacciando un sospiro di frustrazione.
È come se mi trovassi dinanzi ad un bivio, da una parte c'è un sentiero chiamato "pazzia", dall'altra c'è n'è un altro, più piccolo e quasi impenetrabile, chiamato "quello non era solo un sogno e tu non sei pazza".
Non chiudo occhio tutta la notte, mi rigiro fra le lenzuola aggrovigliate come il groviglio dei miei pensieri.
Appena sento la sveglia balzo in piedi, vado in bagno e mi sciacquo ripetutamente il viso con acqua gelida.
Con un po' di correttore cerco di coprire le mie spaventose occhiaie.
Raccolgo i miei lunghi capelli platino in una treccia un po' scombinata, indosso la prima cosa che trovo e poi scendo velocemente le scale, pronta a catapultarmi fuori casa.
Sobbalzo quando scorgo Lucas a braccia conserte difronte la mia porta di casa.
«Lucas!» lo saluto andandogli incontro.
Non mi saluta, continua a guardare per terra.
«C-cosa succede?» chiedo confusa.
«Dovresti dirmelo tu.» sbotta.
«Non fare il vago, si può sapere cosa c'è che non va?» borbotto seccata.
«Non pensi sia arrivato il momento di comprarti un telefono? Ieri ti ho cercato tutto il giorno, ho saputo che sei svenuta dalle voci di corridoio, ed ero super preoccupato.» stavolta il suo sguardo è fisso nei miei.
Non lo biasimo, non ha tutti i torti.
Praticamente al giorno d'oggi non avere un telefono significa essere fuori dal mondo.
Tutti i miei coetanei posseggono uno smartphone, beh io no, quindi ciò mi rende poco reperibile.
Mio padre non ha abbastanza soldi per comprarmene uno, a stento possiamo permetterci un piatto a tavola, ma altrettanto io non lo desidero.
Preferisco vivermi la vita sulla mia pelle, non su uno schermo digitale.
Alzo gli occhi al cielo sbuffando.
«Abbiamo già affrontato questo discorso Lucas. Non ho bisogno di un telefono.» sbotto.
«Proprio non capisci, vero? Non so mai con chi sei o dove sei... Dimmi la verità Isa, ieri sei stata con qualcuno? Come ad esempio quel nuovo ragazzo, un certo Romanov?» mi chiede stringendo la mia mano con la sua.
Il mio sguardo finisce sulle nostre mani intrecciate.
Perché pensa sia stata con lui? Forse mi ha visto, questo significa che forse la giornata di ieri non era solo un dannato incubo.
«C-come fai a saperlo? Mi hai visto?» gli domando subito.
Il suo sguardo si spegne, la sua mano lascia lentamente la mia.
Sembra deluso dalla mia affermazione.
«Quindi avevo ragione, sei stata con lui. Ti piace?» mi chiede d'un tratto.
Lo guardo corrucciata.
«No, è solo che ieri forse l'ho sognato, o forse era reale... Sono molto confusa Lucas, non so cosa mi stia succedendo.» gli spiego cercando una qualche risposta nel suo sguardo, che però si distacca dal mio finendo a guardare nuovamente per terra.
Scuote la testa e sospira.
«Lascia stare Isabell, ho già capito tutto.» sbotta superandomi.
«Lucas!» lo ammonisco, ma non si volta.
Vedo la sua sagoma darmi le spalle e allontanarsi sempre di più da me.
Esausta mi passo una mano sulla fronte, ci mancava solo questa!

Mi incammino verso la scuola avvolta nei miei pensieri. Dovevo assolutamente vedere quel Romanov per chiedergli spiegazioni.
Ho appena passato un isolato dei quattro che mi aspettano davanti, quando un rombo di moto attira la mia attenzione.
L'assordante rumore proviene proprio dietro le mie spalle. Pensando fosse qualche maniaco che mi stesse seguendo, aumento il passo spaventata.
Il rombo continua a seguirmi, finché non prendo coraggio e mi giro stizzita.
«Insomma! La vuoi smettere di seguirmi?» sbotto.
I miei occhi si spalancano quando mi accorgo che quello sulla moto non era un pedinatore, ma semplicemente il professor Darcy.
«M-mi scusi, non credevo...» balbetto paonazza in volto.
«Non preoccuparti piccola Isa. Su, sali!» dice porgendomi un casco. «O vuoi prendere un ritardo anche oggi?» continua.
"Piccola Isa"?
"Sali"?
«N-non mi sembra il caso, i miei compagni si potrebbero fare strane idee...» farfuglio.
«Ricorda che il professore sono io, e finché sarò io le regole le detto io, perciò sali.» afferma con decisione, tanto da farmi venire brividi per tutto il corpo.
Mi afferra per un braccio e mi avvicina a se, mi sposta una ciocca di capelli e mi inserisce il casco guardandomi dritto negli occhi.
Questa vicinanza, quegli occhi color ghiaccio, sembrano quasi congelare anche me.
Lo scruto per un attimo, osservo i suoi lineamenti marcati e spigolosi, i suoi zigomi alti, lo sguardo assottigliato, le sopracciglia folte, la carnagione bianca quasi come la mia, le labbra carnose e rosee, la mascella appuntita, la ciocca di capelli biondi che gli ricade sulla fronte, scappata via dal resto tirato su con la gelatina, le fossette sui lati delle guance, tutto ciò gli dava un'aria affascinante quanto misteriosa, imponente quanto seducente.
«Va tutto bene?» mi domanda con un ghigno sul volto.
Scuoto la testa ritornando in me, sento il mio volto avvampare per l'imbarazzo.
Cosa diavolo mi viene in mente?
Monto sulla moto senza dire una parola e mi aggrappo alle sue braccia. Potei sentire gli imponenti muscoli contrarsi al mio tocco.
Subito elimino il contatto fisico e mi aggrappo ai lati della moto.
«Così cadrai.» sbotta.
«E invece no, riesco a mantenermi non si preoccupi.» nemmeno il tempo di finire la frase che sfreccia a tutta velocità cosicché sono a malincuore costretta ad avvinghiarmi completamente a lui.
Stringo il mio busto al suo, non capisco perché vada così dannatamente veloce.
Le mie braccia circondano la sua vita, le mie mani sono aperte sul suo addome, guardo le sue che intanto premono sull'acceleratore, le nocche bianche e i tendini tesi.
Il mio sguardo si sposta poco più su, lì dove il vento ha scompigliato le pieghe sui polsini della sua camicia bianca. Il cuore mi sale in gola quando mi accorgo che questi ultimi sono cosparsi da macchie di sangue, quelle macchie di sangue.
Scuoto la testa e sbatto ripetutamente gli occhi, ma quegli schizzi rossi non vanno via dalla mia vista.
Vedo i suoi occhi osservami dallo specchietto, adesso hanno un'altra luce, li vedo più gelidi del solito.
La mia presa si allenta dal suo busto e caccio un sospiro di sollievo quando lo vedo svoltare a destra nel cancello della scuola.
«Scendo qui.» sbotto con distacco.
Prima che me la potessi dare a gambe, la sua mano avvolge il mio polso.
Involontariamente il mio sguardo finisce sulla sua camicia sporca di sangue. I suoi occhi seguono i miei cadendo sui polsini, dopodiché vedo saettare lo sguardo nel mio.
Stacco il mio polso dalla sua presa e inizio a correre verso l'entrata della scuola.
«Isabell!» lo sento gridare.
«Signorina Isabell!»

In the vampire's mouthDove le storie prendono vita. Scoprilo ora