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Mi detesta da quando ho messo piede nello studio, poco meno di due anni fa: da allora non fa altro che ricordarmi che sono un inutile peso morto. Già, faccio il praticantato nello studio legale di mio zio, che non è che mi stimi molto. Di fare il tirocinio qui da lui non mi era passato nemmeno per la testa, mi sarebbe piaciuto occuparmi di assistenza legale per le persone di minore età, avevo anche preso contatti con uno studio in un'altra città, ma si è messa in mezzo mia madre ed eccomi qui, a fare il peso morto. Mio zio ha presa solo per non sentirsi rinfacciare ancora le lezioni di latino che lei gli ha dato al tempo delle bighe, immagino. Alla fine ci ha guadagnato solo lui: ha accontentato l'insistente sorella e ha una schiavetta a cui delegare le rogne. Rogne pagate pochissimo, manco a dirlo. E io ho perso la possibilità di fare quello che mi interessava davvero; dal punto di vista professionale sto imparando, certo, ma non è che ci perdano poi tanto tempo con me. Dopo quasi due anni di pratica e 160 ore di formazione, non mi sento ancora in grado di affrontare l'esame di abilitazione. Ma questo l'avvocato Tomaso con una M, non sembra afferrarlo: per lui sono solo quella che è stata presa per parentela e non per reali capacità o speciali competenze. E detto da uno che lavora nello studio del padre e che occupa la stanza più bella e con le finestre esposte a sud, è di una coerenza disarmante.

«Avocato Ti, problema. Lui grande stronzo».

Trattengo una risata, perché è la sacrosanta verità. L'avvocato Ti è un grande stronzo. Poi mi do un contegno.

«Cezara, non è simpaticissimo ma stronzo mi pare troppo. Ricordati chi ti paga lo stipendio».

«No, dottora, tu niente capito. Avvocato. Stronzo. Grande Stronzo. Vodka. Due bottiglie. Lui bagno, a terra, io no lavorare così».

Pratica forense e tanti guaiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora