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«Tomaso, quanto hai bevuto, mannaggia a te?» dico sottovoce, quando riesco a farlo mettere seduto.

«Due bicchierini piiiiiccoli piiiiicoli così. E da quando mi dai del tu, peso morto?», ridacchia e con pollice e indice mima una quantità piiiiiccola piiiiccola. Mi rendo conto che da sbronzo è ancora più stronzo. Cezara aveva ragione, come sempre.

«Sì, sì. Lasciamo per dopo le formalità, e vediamo di alzarci da terra».

Finalmente, dopo un lasso di tempo che mi sembra infinito, è più o meno in piedi. Mi usa come stampella, puzza maledettamente: si sarà mica pisciato anche sotto? Eh no, che schifo. Inorridisco al pensiero, ma pare che non sia così. Non che faccia meno schifo, ma è solo vomito. Non posso assolutamente lasciarlo qui, non è in condizioni di essere visto, ne andrebbe del buon nome dello studio. Con grande fatica riesco a portarlo fuori dal bagno. Adesso arriva la parte difficile. Devo metterlo su un taxi e farlo arrivare a casa sano e salvo o almeno vivo. Non so dove abita. In realtà non so niente di lui, tranne che mi odia, che è il figlio del mio capo e che così ubriaco è bellissimo. Cezara ne sa meno di me. Benone. Provo a farmelo dire, non accenna a rispondere. Pare non fregargliene proprio.

«Senti, in queste condizioni non ti posso lasciare qui da solo. Concentrati e dimmi dove devo farti arrivare».

«Dove ti pare, peso morto».

Splendido. Reagisce. Almeno è vivo.

«Cezara, non una parola con nessuno», intimo alla granitica rumena che è già all'opera per ripulire il casino che questa spugna di avvocato ha lasciato in bagno. Lei mi fa l'occhiolino: siamo d'accordo.

Forse sono stata momentaneamente posseduta dallo spirito di Madre Teresa di Calcutta, quando decido di portarmi a casa questo relitto dalla parvenza di un homo sapiens e salvarlo da una brutta sbronza e da un'epica figuraccia.

Pratica forense e tanti guaiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora