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«Ma come cazzo ti è saltato in mente?» Mi strilla al telefono Iris quando le comunico del mio rigurgito missionario. «Da quando portiamo ubriachi a casa?» Le ricordo i tempi dell'università, lei vacilla. Non ci portavamo a casa gente ubriaca, arrivava sobria e usciva carponi e lei dovrebbe ricordarselo bene bene visto che ci ha realizzato anche un progetto fotografico. «Senti, ormai il danno l'ho fatto, non lo potevo lasciare in quelle condizioni, magari si ricorda che gli ho salvato la vita e la reputazione e non mi sbatte fuori a calci in culo in un prossimo futuro in cui conto di non essere disoccupata e di conseguenza senza tetto».

«Il fatto che tu abbia una cotta epocale per lui non ha minimamente influito su questa decisione, vero Ze'?»

«Non ho una cotta per nessuno, lo faccio solo per salvare il posto e di conseguenza la mia metà di affitto» Sì, come no.

Con non poca difficoltà lo faccio uscire dal taxi, visto che si è anche addormentato e con l'aiuto di una irritatissima Iris in pigiama rosa di Victoria's Secrets e pantofole a forma di coniglietto, lo porto in casa. Giuro che questi 50 euro che ho dato al tassista me li farò rimborsare, in un modo o nell'altro.

«Parcheggialo, mentre gli faccio un caffè triplo. O meglio un Bloody Mary, tu con le sbronze non ci hai mai saputo fare», mi dice. Vero, reggo pochissimo l'alcol, e ancor meno gli ubriachi: sono solo in grado di distribuire patatine e acqua per smaltire l'hangover.

Provo a dargli dell'acqua a piccoli sorsi, ma niente, è ancora ko. Il caffè non gli fa nessun effetto. Dorme seduto sul divano. Puzza seduto sul divano. Sul meraviglioso Frau di Iris. Quando collega quell'odore terribile ai vestiti dell'homo sapiens arenato sulla seduta del tre posti in pelle color brandy ha un mezzo coccolone.

«Togli quel coso dal mio divano, che ancora ci pago le rate», tuona.

«Dove vuoi che lo metta? In cantina?» ribatto sarcastica.

«Avendocela», valuta lei.

Cerco di svegliarlo e farmi dare l'indirizzo di casa sua o un numero che posso chiamare. Mi sono pentita di averlo portato qui appena il taxi si è fermato. Possibile che non ne faccia mai una giusta?

«Tomaso, sveglia, mi serve l'indirizzo di casa tua. Così ti ci porto». Nessuna risposta. Cazzo. Frugo nelle tasche della giacca, non trovo il cellulare, di infilare le mani in quelle dei pantaloni non ci penso nemmeno, per cui gli propongo di chiamare qualcuno che possa togliere lui e di conseguenza me, da questo impiccio. Ma perché non l'ho lasciato dov'era? Ah già, perché sono stupida.

«Vuoi che chiami qualcuno? Tuo padre? Mio zio? Januaria?» La Contessina Januaria Mazzanti Del Pozzo, storica fidanzata dell'avvocato Tomaso Tancredi Ludovisi Bonelli. Un metro e ottanta di antica nobiltà romana, di cui almeno un metro e venti di coscia, bionda naturale, manco a dirlo, ape regina del circolo del tennis e della vela. Entra in studio con fare da attrice consumata, fa dondolare davanti alle segretarie una delle sue innumerevoli borse Hermes comprate con i soldi di papà e, quasi levitando sui tacchi, con classe innata si dirige verso il salottino in cui si fa servire il tè mentre aspetta che l'augusto fidanzato si liberi dalle scocciature lavorative per portarla a pranzo in qualche ristorante carissimo e stellato. Non ringrazia, non saluta. Non sapete che voglia di sputarci in quel tè, ogni singola volta. La Contessina, diversamente da noi poveri mortali costretti a lavorare, si 'mantiene' grazie al patrimonio immobiliare della sua blasonata famiglia: si alza alla mattina, la poverina, e deve solo guardare gli zeri sul suo conto aumentare senza che lei debba far nulla: che vitaccia. Con lo stesso patrimonio, pare, mantenga anche i suoi costosi vizietti: borse di Hermes, scarpe Louboutin e strisce di coca.

«Allora? Sei vivo?».

Un grugnito è una risposta? Pare di no.

«Iris, ce lo dobbiamo tenere per qualche ora. Rassegnati».

Pratica forense e tanti guaiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora