Capitolo 2.1 - Una questione di onore

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Serietà. Obbedienza. Disciplina.

Tutto quello che a Byron Lamont mancava, secondo suo padre: il conte infatti non apprezzava il suo amore per l'alcol, le feste e il gentil sesso, che a sua detta lo distraeva dagli studi scolastici, troppo spesso trascurati, e rischiava di danneggiare l'immagine pubblica della famiglia.

Byron sapeva che suo padre era furioso con lui, anche più del solito. Era seduto su una delle lussuose sedie che sua madre aveva comprato da un mercante straniero, attendendo che il conte Lamont lo chiamasse. Non era preoccupato, la disapprovazione di suo padre non era una novità: di solito gli faceva una ramanzina, lo segregava in casa per un paio di giorni e poi tornava a ignorarlo come sempre. Quando era piccolo lo sguardo di disprezzo che gli lanciava ogni volta gli faceva male, ma ormai se lo lasciava scivolare addosso come i pregiudizi degli estranei.

«Ehi, signorino. Vostro padre vi chiama.» lo informò Mitchell. Un cyborg di categoria C, il numero 538, se Byron non ricordava male. Lui non li chiamava mai per numero, come facevano tutti, ma li chiamava per nome, un'altra delle tante abitudini che suo padre proprio non sopportava.

«Immaginavo.» rispose.

Il cyborg accompagnò Byron da suo padre in silenzio, troppo silenzio. Quando entrarono nella stanza, Mitchell si fermò davanti alla porta. "Strano", pensò Byron, "di solito esce".

Il conte Lamont era di spalle, in piedi, e non si voltò nemmeno quando sentì il figlio entrare. Aveva una postura rigida, le mani dietro la schiena e la testa leggermente chinata verso il basso. I suoi capelli, biondi come quelli del figlio, ma con qualche ciocca imbiancata dell'età, erano perfettamente in ordine. Era vestito in modo elegante, come sempre.

Byron si fermò a qualche metro da lui. Non si avvicinava mai troppo a suo padre.

«Ah, Byron.» disse il conte Lamont. «Ti stavo aspettando.»

Byron rabbrividì. Non sembrava arrabbiato, ma il suo tono era anche più freddo del solito.

«Sai, mi piacerebbe proprio sapere che cosa ho sbagliato con te.»

«Padre...» disse timidamente Byron. Doveva per forza dire qualcosa.

«Non chiamarmi così.» rispose secco il conte Lamont, dando, come sempre, le spalle al figlio. Quest'ultimo ammutolì, e per un paio di secondi eterni nella stanza regnò il completo silenzio.

«Tu... hai veramente superato ogni limite.» disse il conte Lamont, tenendosi la base del naso con il pollice e l'indice. «Non provi vergogna per il tuo comportamento?»

«Io...» balbettò Byron, senza sapere bene cosa aggiungere. L'unica cosa di cui si vergognava era di essersi fatto beccare: tutto il resto era stato troppo bello per pentirsene. E poi, era convinto che non sarebbe successo niente, come al solito... eppure questa volta tutto sembrava diverso. Byron aveva una brutta sensazione.

«Tu cosa? I tuoi costumi dissoluti non sono degni di un nobile e non rispettano i principi dell'Impero, ma fino ad ora ho sempre chiuso un occhio sul tuo comportamento, e ti ho perfino protetto, anche quando non lo avresti meritato.» continuò il conte, sempre senza guardare in faccia il figlio. «Tuttavia, noto con amarezza che tutto questo non è servito. Hai macchiato irreparabilmente il buon nome della nostra famiglia. Sei una delusione.»

Byron non era una persona facile da zittire, ma in quel momento non fiatò: qualunque cosa avesse detto avrebbe peggiorato la sua situazione. Fissava il pavimento: non aveva il coraggio di guardare suo padre nemmeno sapendo che era girato dall'altra parte.

«Per questo motivo, tu non sei più un Lamont.» disse il conte, lapidario. «E non sei più mio figlio.»

Byron raggelò. «Aspettate, padre, non vorrete...» disse, allarmato. Gli tremava la voce.

«Non hai più il diritto di chiamarmi così. Non avrei voluto arrivare a tanto, ma mi hai costretto tu.» ribatté suo padre, con estrema indifferenza.

«Vi prego, ripensateci! Non succederà più, obbedirò! Così non so nemmeno dove andare!» balbettò Byron, in preda al panico.

«Ci ho pensato io. Pagherai per i tuoi peccati combattendo per questa città.» disse il conte, e Byron si bloccò di nuovo.

«Nell'esercito...» fece per esclamare, terrorizzato, ma la voce gli rimase strozzata in gola. Non poteva credere che alla fine suo padre avesse deciso di fargli una cosa del genere. Non voleva.

«Troverai il tuo posto nell'esercito, Byron, e sono sicuro che lì potrai riflettere bene sui tuoi errori.»

«No, no... no! Vi prego!» gridò il ragazzo, scuotendo la testa disperato, come se si fosse improvvisamente reso conto della sua situazione. Sentiva gli occhi umidi, e non aveva idea di come salvarsi. «Morirò» aggiunse poi, con la voce rotta.

«Dal momento in cui hai cessato di far parte di questa famiglia, quello che ti succede ha smesso di essere un mio problema. Partirai immediatamente.» rispose suo padre.

Certo, non voleva nemmeno lasciargli salutare Oliver. "Bastardo", pensò Byron, e la rabbia sostituì la paura.

«Lurido bastardo!» gridò, e scattò verso di lui. Voleva scuoterlo, fargli capire che non poteva trattarlo in quel modo. Suo padre non si scompose: fece un solo, semplice gesto, e Byron sentì un colpo fortissimo alla testa, che lo fece sbilanciare e cadere a terra. Sentì un dolore lancinante alla tempia e la vista offuscata; sentì il pavimento freddo sotto la pelle, e quando provò a toccare il punto colpito lo sentì umido e appiccicoso.

«Bene, C-538. Ora portalo via.»

Byron fece per alzarsi e ribellarsi di nuovo, nonostante fosse ancora stordito, ma Mitchell lo sollevò di peso, per le braccia, e lo strinse con una presa ferrea. Tentò di liberarsi, ma il cyborg era più forte di lui.

«Mitchell, andiamo, non lo ascolterai sul serio!» disse Byron, cercando di convincere il cyborg, che continuava a trascinarlo verso la porta mentre lui si dimenava. «Il colpo in testa te lo perdono, se mi lasci andare... avanti, Mitch! Siamo amici! L'altro giorno ti ho pure offerto una birra!»

Il cyborg non lo ascoltò. Non faceva altro che eseguire il suo dovere.

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