Flechazo - Carlos Sainz

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Flechazo è una di quelle parole spagnole che non hanno una traduzione letterale in italiano. Quella che ci si avvicina di più è colpo di fulmine, ma non rende abbastanza da far capire il significato intrinseco che si nasconde dietro al termine.

È un flash, è più veloce di un fulmine, è qualcosa che scatta dentro, non è misurabile con il tempo.

E per Carlos, quello con la formula uno è stato questo. Un flechazo.

Lui che è cresciuta tra la terra e la polvere, le ruote grosse, più grandi di lui, ha scelto l'asfalto piuttosto che gli sterrati. Gli sono bastati pochi istanti in una calda domenica di gara in catalunya, un pilota spagnolo come lui, cresciuto più a nord di Madrid, all'ombra delle Asturie. Non gli è bastata la fama di suo padre, El Matador, per fargli preferire le piste grezze ai rettilinei e le curve della massima categorie delle monoposto.

Suo padre che per lui è sempre stato il mito e l'ombra, l'eroe e il peso che portava sulle spalle, suo padre che avrebbe desiderato condividere la stessa carriera, ma è stato ben felice di consigliarlo in tutti quegli anni, tanto quanto Carlos si è pentito di non aver colto prima quei preziosi consigli, tanto quanto si è odiato quando da bambino desiderava non portare quel cognome ingombrante, quello che lo faceva apparire come il nemico agli occhi dei suoi coetanei in pista.

In molti pensavano che avrebbe avuto la strada spianata e invece quella polvere che ha rifiutato da bambino, l'ha dovuta mangiare per risalire in superficie, per arrivare al suo obiettivo più grande, il rosso che indossa con fierezza.

Ha dovuto lottare contro un ragazzino ancora minorenne, con il talento così evidente da far passare in secondo piano il suo carattere acerbo e da farlo diventare il diamante della scuderia dei tori.

Ha dovuto colorare le sue gare, tra le fila di scuderie sbiadite, per farsi notare dai più grandi.

Ha dovuto sudare persino il suo primo podio, festeggiato in ritardo, in un mondo che corre velocissimo. Circondato dai colori del suo team, ma senza la folla ad acclamarlo.

Ha sempre dovuto dimostrare, confermare, persino quando il suo sogno è diventato realtà e sulla sua tuta è apparso un cavallino rampante che ha sempre guardato con aria sognante. Tra dubbi e sgomento ha concluso la stagione nel modo più perfetto possibile, nemmeno un ritiro, precedendo il diamante della scuderia.

Eppure tutto quello non è bastato, perché guidare una Ferrari significa aver addosso il triplo della pressione. Basta un errore, una stagione partita male, una macchina che sembra scivolargli tra le mani e i tifosi non perdonano, non ricordano più di un podio a Monaco in una stagione nera, di diciassette gare consecutive a punti.

Ma Carlos è nato nella polvere e dalla polvere ha imparato ad emergere. È nato lottatore, El matador junior, dimostrare è il suo mantra di vita. 

Ha atteso pazientemente per otto anni, cavalcando l'onda giusta al momento giusto, nessuno più di lui ha giocato al gioco della sedia con i sedili liberi. Quattro scuderie, cinque compagni di squadra, tutto per raggiungere quella pole, in un sabato bagnato inglese, nella terra che fino a qualche anno fa era diventata una seconda casa.

Ha sfiorato la pole nel Paese dove è nato e cresciuto, ha visto suo padre consegnare il premio al suo compagno di squadra, si è sentito perso, deluso, amareggiato, il cervello invaso di pensieri negativi, il sangue bollente nelle vene.

Ha persino pensato che quel flash di tanti anni fa fosse stato solo un abbaglio, che forse avrebbe dovuto scegliere la ghiaia, il terriccio e i deserti, come suo padre.

Si è rigirato per notti intere nel letto chiedendosi dove sbagliasse, perché analizzare dati e calcolare tutto pazientemente non lo portasse da nessuna parte. Si è sentito persino un ingrato per non essersi gustato a pieno quei pochi podi della stagione.

INTO MY HEAD // F1 one shotsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora