Fummo messi in ordine di altezza da mia madre scrupolosamente.
In una riga dritta di fronte alla porta di ingresso spalancata, pronta
ad accogliere la famiglia Gigliani.
Tutti eravamo vestiti eleganti: le signore in abito da sera con colori
neutri e caldi, le ragazze più giovani indossavano abiti lunghi fino
alle ginocchia, definiti da una gonna ampia colorata. I signori
stavano in giacca e cravatta mentre, i miei cugini ed io
indossavamo il completo con solo la camicia bianca.
Messo all'ultimo posto, ero il chiudi fila. I miei zii, quando erano
più giovani, raggiunsero la mia stessa altezza se non di più. Con
l'avanzare degli anni, e la fatica del lavoro addosso, iniziarono a
piegarsi e a perdere quei pochi centimetri che mi avrebbero fatto
saltare il mio posto in fila.
Tutti retti e dritti, con spalle rigide e mento all'insù, aspettavamo
impazienti l'arrivo degli ospiti.
Assistemmo a minuti di silenzio interminabili, fissando il vuoto
che avrebbe solo dovuto riempirsi,finché un passo sulla neve non
ci fece svegliare.
<< Benvenuti, che piacere rivedervi.>> disse mia madre, l'unica
che avanzò di qualche passo.
Dalla porta entrarono quattro figure tozze, più bassi rispetto a noi.
Dalla sinistra si scorgeva il signor Gigliani, il più alto, anzi il
meno basso tra di loro, si avvicinò a mia madre per stringerle la
mano calorosamente.
Dietro di lui due donne affascinanti e di bell'andatura iniziarono a
muovere i primi passi. La signora Cassandra, sorella di Maurizio
Gigliani, nonché ereditiera della confindustria del nonno, uno dei
più grandi imprenditori siciliani. Accanto a lei una graziosa figura
minuta, illuminata da due guance rosee sul viso e due occhioni
verde menta coperti da una frangia di capelli marroni sottili: era
Sofia Gigliani, la figlia del signor Gigliani. Aveva un abito azzurro
con dei ricami floreali sull'orlo della gonna che le accarezzava i
sottili polpacci. Era affascinante. Fin da quando ero un adolescente, mi sentivo ripetere da mia madre che sarebbe statomeglio per tutti se un giorno avessi sposato Sofia, non tanto per
amore, ma perché avrebbe agevolato gli affari. Non disse
fermamente così, ma lasciò intendere. Io iniziai ad abituarmi a
quel pensiero, in fondo, una volta che mi fossi laureato e trovato
un lavoro regolare, forse avrei anche potuto avere una moglie al
mio fianco, per quanto io mi fossi imposto che sarebbe accaduto il
più tardi possibile. Volevo dare priorità agli studi. Ma per allora mi
convinsi che quella fosse la normalità.
Ultimo a tutto si scorgeva un anziano dai capelli
completamente bianchi, ma con una postura retta e un'apertura di
spalle larga che lo faceva sembrare più giovane della sua età. Il
Signor Milligan, consigliere e avvocato a cui si erano rivolti i
Gigliani all'inizio degli affari con la nostra famiglia. Volevano
assicurarsi che fossimo leali come lo erano stati i nostri antenati
con i loro.
Le quattro persone entrarono definitivamente in casa, e quello
spazio vuoto, tenuto come metro di distanza per una questione di
cortesia, iniziò a riempirsi della più falsa cordialità.
<< Oh, che piacere. Non sapete con quanta attesa abbiamo
aspettato questo giorno.>> Disse mia zia Lea accarezzando la
mano di Cassandra.
<< Il piacere è tutto nostro, grazie sempre della gradita
ospitalità.>> La interruppe una vocina gracile che cercava, con
tutte le sue forze, di sembrare autoritaria.
<< Sofia, ciao.>> Mi rivolsi cordialmente a lei, superando mia zia
Lea e lasciando il mio posto della fila vuoto. Le presi la mano, e
come avrebbe fatto un vero gentleman, la sfiorai con le labbra in modo
pacato, per non spaventarla. Appena alzai di un po' il volto,
incontrai il suo viso rosso dall'imbarazzo e i grandi occhi verdi
che mi fissavano felici ed eccitati. Come faceva, mi chiedevo, come faceva Sofia ad avere un viso così pulito. Infondo la guerra a lei non l'ha colpita in prima persona, ma come faceva ed essere splendente come una Pasqua. Così bella eppure così innocente. Lei sapeva come era il mondo là fuori? Lo sapeva affrontare? Ed io? Sarei riuscito a togliere la polvere alzata dai carrarmati, o a sconfiggere la paura dell'ignoto?
<< Ciao, Carlos.>> mi ricambiò con un filo di voce, dimenticando
il suo intento di sembrare autoritaria.
<< Oh, Sofia Gigliani, che gioia per i miei occhi rivederti.>>
come ogni volta che io iniziavo a parlare con Sofia, mia madre si
intrometteva sempre, forse non si fidava delle mie doti da
ammaliatore, e che, per qualche motivo, avrei potuto far saltare
tutto. Ma non la biasimavo, iniziavo salutando e poi avrei passato
l'intera serata ad evitarla, evitare tutti.
<< Salve signora Bullet.>> la prese per il collo e l'abbracciò.
<< Ti prego, quanto volte lo devo dire, chiamami Joys.>> disse da
dietro la schiena di Sofia. Poi le due si lasciarono, e rivolsero
entrambe gli sguardi su di me.
Abbozzai a un sorriso per non destare alcun cedimento
all'imbarazzo che inevitabilmente stava nascendo.
Ero troppo piccolo ancora per capire cosa mi aspettasse " Il
mondo gira così, per quanto dura possa essere come realtà, oggi
giorno poche sono le persone che fanno il grande passo per amore. Il 17 settembre 1926, come dimenticarlo il giorno in cui nascesti. Ho sempre creduto fin dall'inizio che tu eri destinato a qualcuno pieno d'amore per te. Ma la realtà è più dura di quel che pensi.
Tu sei ancora piccolo, ma capirai, una volta grande.", queste
furono le parole di mia madre durante uno dei suoi sproloqui
notturni. La luna la ispirava, come a me. Mi abituai a quel destino,
in fondo, a me dell'amore non è mai importato nulla.
<< Vogliamo accomodarci?>> disse mio zio Vernom impaziente di
dare il via al banchetto. Non appena parlò, venne catturato dagli
sguardi accigliati di sua moglie e di mia madre che avrebbero
voluto incenerirlo. << Scusate mio marito, vuole fare sempre le
cose di fretta.>> sorrise a stento mia zia cercando di risolvere ciò
che avevano causato le parole di suo marito, ovvero niente, anzi i
signori Gigliani accolsero volentieri quel suggerimento.
Lea sapeva bene che dopo si sarebbe ritrovata le urla di Joys nelle
orecchie.
Ci avviammo verso la sala pranzo, e nel mentre, pregai in
qualunque lingua del mondo che la tavola fosse andata bene.
La guardai in lontananza mentre mi avvicinavo, sembrava tutto a
posto.
<< Prego, iniziate ad accomodarvi. Carlos mi aiuteresti a portare
le portate a tavola?>> mia madre fece quelle domanda senza che si
aspettasse una risposta, era solo apparenza la possibilità che io
avessi potuto decidere.
Andai in cucina con lei e prendemmo tutto il cibo. Le portate non
si dividevano in primo, secondo o antipasto, era tutto un piatto
unico, questo agevolava lo scorrere degli affari nel mentre, senza
alcuna interruzione.
<< Respira, mamma.>> la vedevo più agitata del solito. Da
quando mio padre se ne era andato, il peso ricadde tutto su di lei, e
così la pressione.
<< Non ti preoccupare tesoro.>> Mi disse cercando di non farmi
percepire il suo tremolio nella voce.
Le poggiai una mano sulla spalla. Era davvero poco quello che
potevo fare per lei, quello che si meritava, ma mi bastò un suo
sguardo per farmi capire che quel gesto sarebbe stato abbastanza.
Lei era una donna forte, di sani principi, di certo non si poteva dire
lo stesso di me. Io non presi il suo carisma o la sua capacità di
trasformare in oro qualsiasi cosa toccasse, quello venne dato a mia
sorella. Per quanto io non lo ammettessi mai ad alta voce, Eleonor
aveva preso le caratteristiche migliori di mia madre.
A me madre natura rifilò l'orgoglio e la presunzione di mio padre.
Per quei pochi anni in cui lo vissi a pieno, ricordo solo rigidità
dalla sua parte, ed essendo l'unico figlio maschio si aspettava
tanto da me, troppo. Ma ero piccolo per capire.
<< Oh che buon profumo.>> esclamò Sofia rivolgendosi a mia
madre.
<< Tutto merito di Eleonor e delle mie cognate.>> Lanciò
un'occhiata dall'altra parte del tavolo per poi mettersi a sedere al
suo posto.
Per quanto fosse un unico tavolo, era diviso sempre in tre fazioni:
la prima parte, con a capo tavola mia madre e intorno i miei zii e il
signor Gigliani con il suo consigliere. Parlavano prevalentemente
di affari e di proprietà terriere da vendere o meno, cose alle quali
non mi sono mai interessato, anche se sapevo che una volta
raggiunta la giusta età avrei dovuto unirmi a loro. In centro mia
nonna catturava l'attenzione delle mie zie e dei miei cugini con le
sue storie sulla prima guerra mondiale dove lei lavorara per la crocerossa, che non so per quale motivo affascinassero
tanto. Io rabbrividivo ogni volta che sentivo la parola armi o
morte.
E poi c'eravamo io, Eleonor, Sofia e la signora Cassandra.
Eravamo l'ultima parte del tavolo, quella più silenziosa, ma che
consideravo la più accogliente.
<< Ho saputo che ti trasferirai in centro tra qualche giorno,
Carlos.>> mi domandò Cassandra, con quella sua voce che facevo
sempre fatica a sentire.
Fermai la forchetta che stavo per avvicinare alle labbra e alzai lo
sguardo su di lei. Mai nessuno in quella casa, se non mia cugina,
mia madre e mia sorella, mi chiedevano del trasferimento. Anzi,
non si azzardavano a farne parola, sembrava che non sarebbe mai
dovuto accadere. Mi fece piacere quella domanda, amavo
raccontare i motivi della scelta della facoltà, e mia sorella lo
sapeva fin troppo bene. Eleonor mi lanciò uno sguardo veloce e
mutò le sue labbra in un ghigno consapevole.
<< Oh, beh si. Ho trovato un'università di letteratura molto
importante, proprio al centro di Londra, vicino a Carnaby Street. Sono andato qualche
mese fa per mettere a posto tutta l'organizzazione dei corsi e del
dormitorio in cui starò.>> dissi sorridendo.
<< Quindi, fammi capire, l'università ti offre anche uno spazio in
cui vivere? Scusami, l'ignoranza.>> affrettò a rispondere,
portandosi poi un pezzo di pane in bocca.
Il discorso stava prendendo una piega che mi piaceva, così mi
ressi dritto allo schienale della sedia e liberai le mie mani all'aria
<< Si, questa sede è più costosa delle altre proprio per la sua
possibilità di alloggio. Le stanze sono un piccolo edificio vicino
alla struttura. Ovviamente non tutti gli studenti che studiano lì
conseguentemente ci vivono anche. Il vitto e alloggio è un carico
di spese in più, e serve per chi viene da lontano.>> Mi fermai
perché mi sembrò di parlare tanto, ma Sofia mi stava ascoltando
con il mento appoggiato alle mani e i gomiti sul tavolo, con un
sorriso che cresceva fin dentro agli occhi.
<< Ho accompagnato mio fratello a vedere la struttura, e devo dire
che non è niente male. Molto spaziose le aule e i dormitori sono
mediamente grandi.>> intervenne mia sorella portandosi il calice
di vino vicino alle labbra. La guardai sotto le mie ciglia nere, un
pizzico di timore si accese dentro di me. Eleonor beveva
raramente, e quando lo faceva, bastava anche poco per farla partire
di senno. Si accorse che la stavo guardando, così mi rivolse un
sorriso di serenità e alzò il calice per poi bere alla mia salute.
<< Per quanto tempo rimarrai in centro?>> la signora Gigliani
aveva appena posto una domanda che il mio cervello cercò di
archiviare per tanto tempo, << Tornerò per le vacanze di natale e
primaverili ogni anno. E poi ritornerò all'università nei mesi degli
esami.>> Cercai di rispondere a una domanda che mi avrebbe
posto poi , successivamente, a un altro enorme quesito.
<< Quando ti sarai laureato, avrai intensione di tornare o rimarrai
a viveri lì?>> Sentii mia sorella affianco affogarsi con un pezzo di
carne, mentre io deglutii così rumorosamente che mi sentii in
imbarazzo. Una mia risposta a quella domanda avrebbe potuto
causare ogni tipo di conseguenza. Se avessi espresso il mio
desiderio di rimanere in centro, la signora Gigliani avrebbe riferito
al fratello l'impossibilità di un matrimonio con Sofia dato che la
loro residenza era fin troppo lontano dal centro di Londra. O
peggio ancora, mia nonna, che distava qualche sedia da me,
avrebbe potuto sentire e si sarebbe messa a fare una delle sue
solite sceneggiate, mandando tutto a rotoli. Se invece, avessi
risposto che sarei tornato, avrei mentito a me stesso e a loro,
facendo illudere Sofia di una vita che non le avrei fatto fare. Ero in
trappola.
Cercai una risposta plausibile nella mia testa, ma le opzioni
scorrevano a rilento e sembravano tutte poco adatte al contesto.
<< Mi dispiace, non sono affari miei. Alcune volte mi faccio
prendere troppo dal discorso.>> Cassandra riprese a mangiare, e i
suoi occhi gentili si persero nel piatto. Io e mia sorella ci
guardammo allarmati. << Oh, no assolutamente. È solo che
ancora non lo so con precisione. Ma forse tornerò.>> quel "forse"
mi avrebbe aiutato. In realtà, io ed Eleonor, sapevamo fin troppo
bene che erano affari suoi eccome. Ne valeva della vita della
nipote e degli affari.
Il tempo iniziò a scorrere velocemente, di tanto in tanto qualcuno
si alzava per fare un brindisi, altre volte mi ritrovavo a parlare con
Sofia. Era un dialogo a senso unico, lei non faceva altro che
guardarmi con quei suoi grandi occhi, come se fosse incantata
dalla mia voce, ma in realtà parlavo di cose che lei non avrebbe
capito, tipo Shakespeare.
Ma fu proprio mentre osservavo quel volto perso nella
discussione che un dolore incendiante si insinuò dentro al petto e
allo stomaco, tanto forte da farmi piegare in avanti.
<< Mi perdonerete la maleducazione, ma io devo un attimo salire
di sopra.>> ebbi l'esigenza di commettere quell'atto suicida.
Poche ore prima avevo sperato con tutto me stesso che quegli
attacchi non si sarebbero presentati proprio durante la cena.
E invece.
Vidi, dall'altra parte del tavolo mia madre con uno sguardo
assassino pronto ad uccidermi. In qualche modo se ne accorse
anche il signor Gigliani.
<< Oh, suvvia, lo lasci andare.>> appena sentì la voce grave
dell'uomo mia madre si arrestò sul posto.
<< Anche io alla sua età facevo di tutto pur di allontanarmi
almeno cinque minuti dalla mia famiglia. Immagino che ti annoino
i nostri discorsi.>> Maurizio si rivolse poi a me. Sul suo volto non
c'era aria di rimprovero, ma solo un sorriso affabile che gli
ingrossava le guance.
Anche se sapevo che non mi stesse rinfacciando nulla, l'attenzione
calò su di me, con sguardi ovunque e io mi volli sotterrare. << No,
no. Non mancherei mai così tanto di rispetto.>> mi affrettai a dire.
Le miei zie si girarono tutte verso di lui e gli scambiarono sorrisi
amichevoli e dei sì con la testa per affermare ciò che avevo detto.
<< Sto scherzando, ragazzo. Ecco una cosa che puoi fare una volta
in università, divertirti. Scrolla questa pesantezza dalle spalle che
non si addice affatto a un ragazzo bello e sveglio della tua età.>>
Poi, come se nulla fosse, il signor Gigliani riprese a mangiare la
sua bistecca, sotto gli occhi increduli della mia famiglia.
Io iniziai ad indietreggiare, sperando che quel vecchio legno non
scricchiolasse proprio nel momento di silenzio. Ma mi salvai.
Finalmente mi trovai dentro la mia stanza. Chiusi la porta,
appoggiandomici poi con la schiena e iniziai a respirare piano.
Nel mentre emettevo profondi respiri, cercai tra le mie scartoffie
qualche foglio bianco e una penna. Mi portai una mano al petto e
inizia a massaggiarlo con calma. Trovai tutto l'occorrente e lo
poggiai sulla scrivania. Prima di sedermi sulla sedia, però,caddi
indietro sopra la materasso morbido del mio letto.
Mi distesi, e il mio battito iniziò a cessare di correre.
Alcune volte, avevo questo dannato bisogno di dover stare solo.
Non ero un tipo scontroso, ma non si poteva dire di certo che
amassi la socialità. Essere cresciuto in una famiglia così numerosa
fece nascere in me il ripetuto bisogno di avere quegli spazi di
solitudine. Questi attacchi irrefrenabili, con il tempo, iniziarono ad
essere sempre più influenti nella mia vita. Crescendo, iniziai ad
avere più consapevolezza di tutto e tutti, e questa cosa iniziò a
terrorizzarmi. Non riuscivo a stare in uno spazio chiuso con tante
persone, odiavo quando l'attenzione ricadeva su di me e la
costringente voglia di sparire mi inghiottiva.
Trattenendo l'aria, con fatica mi alzai. Spostai all'indietro la sedia
e mi ci appoggiai. Presi la penna con mano tremolante, ma appena
la punta si poggiò sul foglio i miei pensieri iniziarono a scorrere
fissi sotto forma di inchiostro. Ripensai alla domanda che mi pose
la signora Gigliani, che cosa ne avrei fatto della mia vita dopo?
Era una lacuna immensa per me quella risposta. Sicuramente si
trovava sepolta tra le carte stropicciate del mio archivio mentale.
Il costante pensiero che qualunque scelta facessi avrebbe scaturito
delusione in una persona a me cara. Ero in bilico tra la scelta di
rendere felice i miei parenti o seguire quello che il cuore mi diceva
di fare. Ma al diavolo il cuore.Nessuno, nessuno riesce a capire quello che provo. Ho solo voglia
di scappare via, prendere il volo e non girarmi mai indietro. Mi
sentirei solo, troppo. Sono legato a una vita che non ho deciso, a
una casa che non ho scelto e un destino prescritto.
Sentirsi il vento soffiare vicino alla faccia ma non poterci tuffare
dentro e seguire la corrente. Essere legato a un masso a cui
infondo ti ci sei affezionato.
...
Qualcuno riesce a comprendere le mie urla? Qualcuno sa cosa
significa rimanere intrecciati ad un nodo?
...<< Ma che diavolo di fine hai fatto?>> Eleonor entrò nella stanza
senza bussare. Aveva la faccia imbronciata e uno sguardo
accusatorio.
<< Cosa intendi?>> dissi realmente disorientato dalla domanda.
Qualcosa si accese nella mia mente, senza sapere nemmeno io
cosa fosse. Girai il polso dove c'era il mio orologio in pelle.
<< Oh porca miseria.>> Esclamai. Era passata un'ora da quando
ero salito. Il tempo per me si fermò e nella mia testa stetti a
scrivere solo per pochi minuti.
<< Se ne stanno per andare, vieni a salutare. E meglio per te se
trovi all'istante una scusa plausibile. Dici che ti è venuto un
attacco di diarrea.>> mi raccomandò avviandosi già verso la porta.
La stetti a guardare da dietro, con il merletto che le accarezzava le
gambe nude. Quell'eleganza io non l'avevo ereditata.
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Dammi ancora un'ora
RomansaCarlos non poteva immaginare che la sua vita sarebbe cambiata drasticamente. Infondo, il mondo non gli era mai sembrato più bello di così, su una ruota panoramica, con quel nome tatuato addosso, e il sapore di Lui mischiato tra le sue labbra.