Capitolo 2

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Nei giorni seguenti non feci altro che passare ore ed ore davanti al Brooklyn Bridge Bar, in attesa che quel Michael si ripresentasse. Non tornò più. Era passata una settimana e percepivo ancora il suo sguardo addosso. Mi sentivo vulnerabile, ma al contempo ne desideravo ancora, altre attenzioni. Dev'essere stato un caso, mi dissi. Ma se da un lato cercavo di placare la curiosità, dall'altro invece la fomentavo, perché sembrava mi stesse cercando, non solo al primo tentativo ma anche al secondo, fuori dal locale.

Mi sposto nervosamente da una parte all'altra del marciapiede, finché non mi accorgo di essere arrivata al posto dove mi aveva portato mia madre: il negozio di Klaus. All'entrata campeggia un cartello Vendesi, con su scritto un numero telefonico. L'interno è vuoto e cupo, il pavimento sporco di terriccio. Persefone amava questo posto, ma soprattutto osservare Klaus lavorarci.

«Ehi, Markus!»
Un ragazzo in lontananza parla al telefono. I capelli castani gli arrivano alle spalle, terminando in dei boccoli lucenti. Indossa un paio di occhiali da sole, nonostante sia un martedì sera qualunque, e una camicia di qualche taglia più grande, a pois. Da come striscia le parole deduco sia brillo.
«Sto venendo al Barely.» dice pimpante, un sorriso raggiante sul viso. Di colpo contrae le labbra in una smorfia. Quel Markus deve avergli detto qualcosa di spiacevole.
«Non devo?» si arresta sui suoi passi, la voce improvvisamente ferma e il tono tagliente.
«Nessuno mi dice cosa devo o non devo fare, Markus.»
Una madre, insieme al figlio, lo sorpassa sul marciapiede a passo svelto, probabilmente intimorita. Il ragazzo si tocca il collo, inclinando la testa. Poi si ricompone.
«Specialmente se è uno che si chiama Clarence. Che razza di nome è Clarence? Cresci, dannazione.» borbotta.
Il tono ritorna leggero e una smorfia molesta, che vorrebbe essere un sorriso, gli si dipinge sul volto. Accelera il passo e, quando arriva accanto a me, fa qualcosa che non mi sarei mai aspettata: mi schiva, mettendosi di fianco.
«Sto arrivando. Non fare più cazzate, Markus.»
Ancora destabilizzata, mi guardo intorno: una coppia passava di lì. D'impulso mi getto per strada, piazzandomi davanti a loro, eppure niente, neanche uno sguardo. I loro corpi mi trapassano e continuano indisturbati.

L'indomani vagai per la città. È incredibile come gran parte dei cittadini cammini a passo svelto, sbraitando al telefono. Ripensai al ragazzo di ieri.
Alla mia destra le vetrine riflettono il via vai frenetico della gente. Un leggero strato di condensa ne appanna i vetri, seppur sia Maggio. Non manca molto al mio compleanno, penso. In questi cinque anni di permanenza a Brooklyn ho assistito a molte feste fatte in onore dei compleanni. È una bella cosa: le persone si divertono, mangiano e a volte ballano pure. E poi ci sono i regali, insieme alla torta. Mi piacerebbe festeggiare i miei diciotto anni con Persefone e Demetra.
«Mi scusi, sarei di fretta, tanto per dire.»
Eveline. Ha i capelli raccolti in una coda bassa disordinata, il viso struccato e stanco. Borbotta sottovoce qualcosa, prima di entrare al bar Dumbo. La seguo, speranzosa di trovare Michael ad aspettarla.
«Buongiorno, Cassie. Quanti tavoli ci sono da servire?»
Rapidamente lancia la sua borsa dietro al bancone e afferra un grembiule nero. Se lo lega in vita.
«Mi servi al bancone, in realtà. Ai tavoli ci penso io.» risponde una ragazza dai capelli corvini, destreggiandosi in sala. Eve fa un cenno di assenso, controllando le ordinazioni e mettendosi subito alle prese dietro la macchina del caffè. Non avrei mai immaginato che facesse un lavoro del genere e dalla sua espressione combattuta direi che neanche lei ci si rivedeva molto. Ma credo fosse necessario, altrimenti non si troverebbe qui, di mattina presto, a preparare un caffè latte con panna e cacao sopra.
«Mich!» esclama di colpo.
I suoi occhi fissi oltre le mie spalle e un sorriso raggiante che sembra averle spazzato via ogni residuo di stanchezza. Mi giro verso la porta, entusiasta quasi quanto Eveline, ma dura solo una frazione di secondo. Una ragazza dai capelli biondi a caschetto si avvicina a grandi falcate al bancone. Il suo sorriso è ancor più bello di quello di Eveline. Posa le mani sul ripiano e si sporge verso il suo viso, lasciandole un lungo bacio a fior di labbra.
«Ma che ci fai qui?»
«Ordino un frappuccino,» risponde.
La ragazza prende posto davanti al bancone, seguendo ogni movimento di Eve con lo sguardo. Le mani pallide giunte sul marmo scuro del ripiano.
«Michelle, la mia miglior cliente!»
Cassie si avvicina, accarezzando la schiena di Michelle, la quale le rivolge un sorriso di cortesia. Eveline si stringe nelle spalle, mostrando una timidezza sconfinante. Sento lo sfarfallio nel suo stomaco quando la sua ragazza le fa l'occhiolino, facendosi sfuggire una risatina.
«Manca solo Michael.» continua Cassie, mettendo le mani dietro al bancone. Alla cieca, afferra un panno umido dall'aspetto trasandato.
«Non si scrolla da quel garage da giorni.» borbotta Eveline, mentre Michelle sbuffa un sorriso divertito, come se la sapesse lunga.
«Avrà avuto un'illuminazione.»
«Sì, ma non mi risponde da due giorni. Sono preoccupata.»
Il volto di Eveline si imbroncia. Sembra combattuta, come se avesse qualcosa da dire sulla punta della lingua, ma consciamente si privasse di dirla. Il che manda in fermento la mia curiosità.
«Dov'è questo posto?» chiede Michelle.
«All'incrocio tra Willow e Jody Street.»
«Potremmo passarci a fine turno.»
Eveline gonfia il petto, trattenendo il respiro. Un leggero sorriso le curva le labbra. Annuisce e si rimette a lavoro, mentre io mi affretto ad uscire dal Dumbo's Café.
Se dicessi di star andando da qualche parte altrove da quell'incrocio tra Willow e Jody street, mentirei.

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