Ciò Che Inferno Non É

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"(...)Tutti pensano che a rendere felici debba essere la vita, ma io una cosa l'ho capita: per essere felici serve solo coraggio. (...)però so che quel coraggio in qualche modo adesso è dentro di me, come un seme che (...) poi diventa un albero (...) capace di dare ombra e riparo. Capace di ricevere ferite e stagioni. Di morire per tanti inverni e gemmare in altrettante primavere, sommando vita e morte in anelli sempre più ampi (...)"
-Ciò che inferno non è, Alessandro D'Avenia-

6 chicchi su 12

"So, Convitato, che può sembrarti una storia d'amore dolce, leggera, magari anche eterna e con un lieto fine. Non avresti del tutto torto in realtà: sicuramente è eterna, ma fidati che rincorrersi nei secoli un po' di stanchezza te la lascia. Eppure non cambierei la mia vita per nulla al mondo. Le nostre storie furono molte, talmente tante che alcune nemmeno le rammento, ma ciò che è davvero impresso a fuoco nelle mie ossa erano i suoi addii. Era sempre lei ad andarsene, sempre lei a lasciarmi. Io non volevo farlo. Non potevo farlo. Non dopo aver passato le mie vite ad attenderla.

Spesso moriva di vecchiaia, al mio fianco, consumata dallo scorrere del tempo. Vedevo gli anni rovinarle addosso sotto i miei occhi, giorno dopo giorno. Invecchiavo anche io, ma non morivo. Solo una volta che saltavo in quello di un'altra persona, quello precedente esalava il suo ultimo respiro. Non prova dolore, o almeno è quello che credo. L'espressione che hanno dopo è più di sollievo. 

Altre volte moriva di malattia: tentavo di starle accanto per infettarmi anche io e lasciare questo mondo insieme a lei, ma sembrava che avessi gli dèi a mio favore. O forse contro, dipende dal punto di vista. Più volte piangevo nel bel mezzo della notte affinché qualcuno lì sopra mi sentisse e mi prendesse con lui. Non è mai successo. E io ho smesso di pregare.

Passavo da un corpo all'altro, come fosse un gioco. A seconda dello stato della sua vita in cui la incontravo sceglievo un candidato che fosse suo coetaneo: non importava l'aspetto, non aveva mai contato granché perché conosceva la mia anima. Nient'altro aveva valore. Ricordo un addio in particolare: non ero mai pronto a lasciarla andare perché continuavo a vivere solo nella speranza di rivederla al più presto, ma quel distacco è stato sicuramente il più agghiacciante, quello che sicuramente mi ha segnato di più.

Eravamo a Firenze e correva l'anno 1426: avevo le sembianze di Michele, un panettiere del posto non troppo giovane, ma nemmeno in avanzata età. Lei si chiamava Marta ed era bella, tanto bella, ma quello lo era sempre. Probabilmente sono di parte, ma in qualsiasi corpo la sua anima si trovasse, ai miei occhi appariva sempre come la donna più bella che avessi mai visto. Ci eravamo appena incontrati e già ci eravamo riconosciuti: già questo mi aveva messo in allerta. Non che fosse difficile, ma non era mai successo che capissimo le nostre identità, quelle vere, al primo incontro. Ci volevano giorni, a volte settimane.

Passeggiavamo per le stradine della città mano nella mano diretti verso una bottega in particolare: amavamo passare il tempo alla "sei chicchi su dodici", che apparteneva a mastro Donatello, scultore di notevole fama nella nostra Florentia. Nome singolare, scelto perché secondo lui "coltivava talenti". É lì ci eravamo riconosciuti quella volta, stimolati dalle menti di giovani artisti all'opera. Mi avevano soprannominato "lo strambo", ma non lo prendevo come un insulto. "Ricorda che sono i folli a scrivere la storia", mi diceva il maestro assestandomi una pacca sulla spalla, e io non potevo che dargli ragione.

Avvenne tutto troppo velocemente: lasciò la mia mano per aiutare un gatto che si trovava in mezzo alla strada. Aveva un amore incondizionato per la natura e gli animali ed è anche per questo che non mi passò minimamente per la mente l'idea di fermarla. Ma proprio in quel momento un carro trainato da due possenti cavalli svoltò l'angolo e la colpì in pieno. Il sangue uscì a fiotti, ma il condottiero sembrò non accorgersene e proseguì per la sua strada fischiettando. Avevo avvertito un brivido di consapevolezza quando la sua pelle calda aveva sfiorato per l'ultima volta la mia, ma non avrei mai immaginato questo. Caddi in ginocchio alla vista della macchia scarlatta che si espandeva sulla strada lastricata; il suo corpo, posizionato in una posizione innaturale, giaceva inerte, privo della vita che era solito avere.

Fu un attimo e il mio mondo crollò. Avevo aspettato tanto, troppo per accettare una sua morte così cruenta. Corsi verso ciò che rimaneva di lei e presi il suo viso ormai pallido tra le mani callose: passai ore ad osservarla con la vista offuscata dalle lacrime, incapace di muovermi. Da allora iniziai ad aspettare il suo arrivo impaziente e agghiacciato allo stesso tempo, senza riuscire a capire il perché di tale sentimento. Non ti nego che mi sento ancora così, ogni volta."

|Uno, Nessuno, Centomila-One Shot|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora