1. L'inizio della fine

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Ecco, questa sono io in un campo di grano e qualche tulipano. Nel posto più bello e al tempo stesso più spaventoso che esista. Morente tra le braccia del mio nemico giurato e uccisa dalla persona a me più cara.
La mia storia non comincia qui, anche se avrebbe avuto fascino iniziare così…
Io sono Angelica Lucia Heavens, figlia unica di una famiglia d'élite. Il gene della mia dinastia non mi ha colpito in modo deciso, ma non c'è male. Mamma e papà biondi con occhi azzurri, io capelli neri e occhi verdi. Credo gli sia venuto un mezzo colpo al momento della mia nascita, quando mi hanno vista, ma non me lo sono mai sentito dire. Non potrebbero anche se volessero in realtà. Entrambi sono sempre in giro per lavoro, in qualche posto sperduto nel mondo e, quando mi va bene, ricevo un loro messaggio una volta a settimana solo per avvisarmi del loro ritorno e della loro partenza nella settimana successiva. Breve e neanche intensa come storia familiare, in effetti, ma non ci si lamenta.
Se so una cosa però dei miei genitori, è l'odio senza limiti nei confronti di una famiglia. La famiglia Rodeno, nonché anche famiglia della mia migliore amica.
Lei si chiama Katerina Rodeno, capelli castano scuro e occhi marroni. Ha un fratello, Edoardo Rodeno, capelli neri e occhi verdi, ma detto tra noi non so da chi l'abbia presi. Da quello che so, i loro genitori hanno entrambi gli occhi marroni, il padre capelli neri e la madre rosso rame. Praticamente mai visti, se non per una foto di almeno otto anni fa che mi ha fatto vedere Katerina. Anche loro a dir poco sfuggenti con i figli e decisamente messi molto bene a livello economico.
Quindi, per chi si fosse perso dopo sole poche righe: figlia d'élite, genitori decisamente assenti, figlia unica e migliore amica di una famiglia odiata, nella mia stessa situazione a parte per il dettaglio del fratello. Altri particolari importanti da sapere subito? Beh no, quando è iniziato questo giorno io ancora non sapevo niente.
***
Scesi di corsa la scala dell’ala sinistra della mia casa con una mano vicino agli occhi e l’altra che teneva la spallina della mia borsa bianca. A volte odiavo casa mia, era completamente chiara, d’oro lucente e marmo bianco. Non c’era una cosa che fosse d’un colore scuro o, ancor peggio, nera o rossa. Sinceramente quei colori così chiari e splendenti della casa alle sette del mattino, appena svegli, non erano granché piacevoli.
Uscii dal grande portone della casa dopo che, non so chi, me lo aprì e percorsi il vicoletto costeggiato da cespugli e alberi in fiore che mi diedero un momento d’ombra per permettermi di aprire gli occhi. Stavo per entrare nella macchina che mi avrebbe portato a scuola, quando qualcuno mi chiamò. «Signorina! Signorina, i suoi occhiali!» Una goffa signora, non tanto alta, mi raggiunse di corsa con il fiatone. Si appoggiò un secondo alla macchina a riprendere fiato e poi mi porse un paio d’occhiali da sole bianchi con grosse lenti rettangolari stondate. La scrutai meglio, anche se visto il sole negli occhi vedevo solo la sua sagoma, e capii chi fosse.
«Grazie mille, Stacy. In effetti ne ho molto bisogno» la ringraziai e li afferrai.
«Signorina, lei ha gli occhi delicati, si ricordi sempre di portarli con sé» mi ragguagliò come se non me lo dicesse ogni santo giorno. «Si diverta, in fondo oggi è il primo giorno dell’ultimo anno.»
«Sì, grazie Stacy. Non lo ricordavo, sai?» risposi ironica e lei mi chiuse lo sportello. Per vostra informazione, era tutta l’estate che continuava a ripetermelo.
L’autista, per niente loquace, come sempre mi lasciò a pochi metri dall’entrata di scuola. Io mi infilai gli occhiali e scesi. «Grazie… senti, saprò mai come ti chiami?» domandai rimettendo la testa dentro la macchina senza però aspettarmi  una risposta.
«No» rispose rapido con voce decisa.
«Bel traguardo, in quasi otto anni non avevo mai sentito la tua voce» gli feci notare e mi voltai per andarmene. Nel momento esatto in cui chiusi lo sportello, a tutta velocità rimise in moto e andò via. «Buona giornata anche a te!» urlai facendo il medio con la mano.
Superai il grosso cartello con scritto “Liceo W.”, era bianco con rifiniture rosse, posizionato a qualche metro sopra la porta d’ingresso. Appena entrai, davanti a me, vidi centinaia di studenti che andavano da una parte all’altra del grande corridoio, tutti con il blazer della scuola, anch’esso nero con le rifiniture rosse.
Quindi eccomi qui, con un vestito a maniche corte bianco, sulle spalle un blazer grigio con le rifiniture bianche, borsa bianca e occhiali da sole, guarda caso, anch’essi bianchi. Appena un gruppo di ragazzi passò, vidi la mia migliore amica. Katerina aveva dei lunghi pantaloni neri a vita alta, una maglietta a maniche corte nera che lasciava di due dita la pancia scoperta, il blazer della scuola e per completare il look cintura e borsa rossa.
Ci guardammo intorno per controllare che nessuno stesse guardando nella nostra direzione e poi ci voltammo a guardarci con un grande sorriso. Aprimmo entrambe le braccia e battemmo veloci ma silenziose i piedi a terra, per poi venirci incontro e abbracciarci.
«Sei stupenda!» disse una volta separate.
«Anche tu!» ricambiai il complimento. «Mi sei mancata tanto» rivelai facendo un finto labbruccio. Noi non avevamo il permesso di vederci d’estate, anzi più precisamente non avevamo il permesso di vederci, parlarci, guardarci o essere amiche, mai.
«Abbiamo la stessa borsa, non ci credo! Io l’ho comprata quest’estate, non credevo che anche tu l’avessi presa» mi fece notare.
«Hai ragione, non ci credo.»
«Senti, ti devo dire una cosa prima che tu lo scopra da so…»
«Amico mio!» urlò un ragazzo a una decina di metri da noi. Mi voltai per vedere chi fosse, sentendo una voce familiare. Era Edoardo, il fratello della mia migliore amica che, vestito completamente di nero, con passo svelto si dirigeva verso la porta d’ingresso dietro le nostre spalle.
«Troppo tardi» mormorò abbattuta Katerina. Io lo seguii con gli occhi per capire a chi andasse incontro e vidi chi era. Ora non so ancora dire se quello fosse stato il peggior errore della mia vita o la migliore scelta che io avessi mai potuto prendere, ma non me ne pento del tutto.
Riconobbi immediatamente di chi si trattasse e ne rimasi abbastanza di stucco. Blazer della scuola, pantaloni neri, scarpe nere, camicia bianca sbottonata fino al secondo o terzo bottone, orologio con cinturino rosso, zaino nero su una spalla e occhiali neri a specchio. Sollevai i miei sulla testa per guardare meglio e avevo proprio ragione. In quell’istante anche lui se li sfilò, per poi abbracciare il suo amico. Era alto, capelli castani più chiari sulle lunghezze e occhi rigorosamente verdi tendenti al castano, il mio punto debole in ogni ragazzo. Mi rigirai come un fulmine verso la mia migliore amica, che aveva una mano sul viso, in un gesto disperato.
«Tu sapevi che lui era tornato e non me l’hai detto?» chiesi scandendo bene ogni parola.
«Stavo tentando ma non ho fatto in tempo» confidò, «l’ho saputo una volta arrivati a scuola.»
Lui è Davide Reift, la mia cotta d’infanzia durata fino alla seconda superiore. Poi però, senza alcun motivo, si era trasferito senza più dare sue notizie a nessuno. Ed era appena tornato.
«Sono passati tre anni. Lucia Heavens!» marcò il mio nome, «avevamo detto che l’avevi superata»
«Sì, ma ora è tornato!» replicai.
«Ma a te non piace più» cercò di convincermi.
«Sì, sì» blaterai seguendo lui e Edoardo con lo sguardo, mentre andavano agli armadietti, a una decina di metri da noi. Katerina schioccò le dita davanti al mio viso per riportarmi alla realtà.
«Ehi, no. Caso chiuso, abbiamo detto.» Non feci in tempo a controbattere che qualcuno si intromise nella nostra conversazione.
«Non ci posso credere!» esclamò una voce maschile alle nostre spalle scandendo le sillabe. Ci girammo sapendo già chi fosse. Occhi blu, capelli biondo cenere, polo bianca, pantaloni neri e blazer scolastico. «Speravamo tutti che ce ne fossimo liberati… almeno di lui» sottolineò guardando la mia migliore amica «ma invece a quanto pare no.»
«Michele, buongiorno anche a te» lo salutai. Poteva sembrare strano, ma comunque lui era il mio migliore amico e il primo nella lista delle persone più odiate da Katerina.
«Sempre infelice di incontrarti» gli disse lei.
«Sarà l’ultimo anno di questo strazio, per fortuna» rispose senza neanche guardarla in faccia, «ci vediamo in classe, Angelica» concluse e se ne andò passando tra di noi.
«Quando smetterà di chiamarti Angelica? Sa che tu vuoi che ti chiamino Lucia.»
«Continuate a volervi bene, noto» le dissi. Infastidiva anche me che non accettasse di chiamarmi Lucia, come volevo, ma con il passare degli anni ci avevo rinunciato.
«Mai» rispose irritata. Mi voltai casualmente in direzione degli armadietti e vidi una scena che mi rimase impressa nella mente. Edoardo era di schiena con la spalla sinistra appoggiata allo sportello metallico e Davide al suo opposto. Guardai per un secondo in più e poi vidi lo sguardo del secondo spostarsi in direzione mia, fermandosi poi su di me. L’angolo sinistro della bocca si allungò e mi fece l’occhiolino. Nell’istante stesso mi voltai verso la mia amica con gli occhi sgranati, nella speranza che lei avesse visto quella scena, ma era con lo sguardo basso sul cellulare. Stetti per raccontarglielo, quando la campanella dell’inizio delle lezioni suonò e mi interruppi.

Ali di Cristallo - The Wings Series Vol. 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora