2. La casa delle ombre

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Provai sul serio ad aprire gli occhi. Le mie palpebre ricadevano pesanti come attratte da una calamita. Mi imposi di schiuderli almeno un po’ per capire in che guaio mi trovassi. Vidi qualcosa di nero che si muoveva, ma aveva tutti i contorni sfocati e non riuscivo ad interpretare cosa fosse. Mi sforzai di mettere a fuoco e mi sembrò che fossero gambe avvolte dai  pantaloni. Spostai di qualche millimetro la visuale e notai che in quel posto era tutto scuro, perfino le pareti o quello che pensavo lo fossero.
«Aspetta, così non risolveremo niente» disse nuovamente quella voce e le gambe di prima sparirono dalla mia visuale. Gli spiragli di luce che entravano nei miei occhi come spilli affilati si attenuarono.
Riuscii ad aprire ancora un po’ le palpebre e vidi che ero in una stanza con le pareti nere. Il mio sguardo riusciva a vederne una con in fondo qualcosa di non identificato. A sinistra c’era una porta che emanava ancora troppa luce dall’esterno. Sull’altro lato c’erano delle mensole, ma non sembravano di legno, piuttosto di ferro come quelle delle officine. Provai a girare la testa verso destra per vedere cos’altro ci fosse, ma mi sembrò quasi di catapultarmi nel vuoto e mugugnai.
«Ferma, ferma. Non ti muovere» ordinò sempre la stessa voce, che però iniziava a diventarmi familiare. «Proviamo anche questo, poi non saprei cos’altro fare» aggiunse, quasi parlando tra sé e sé. Lo vidi camminare verso la porta e poi per fortuna la chiuse. Non stavo bene, ma era già una cosa buona. La camera sembrava quasi in penombra. Aprii ancora gli occhi, anche se non completamente, quando sentii il letto leggermente affossarsi alla mia sinistra, alzai lo sguardo per vedere chi fosse. Un paio di occhi verdi mi guardavano con un misto di espressioni e allo stesso tempo nessuna.
«Co…» le parole mi si spezzarono in gola. Ogni traccia di saliva sembrava essersi prosciugata e parlare era come avere una grattugia incastrata tra le corde vocali.
«Aspetta» mi fermò e prese da qualche parte dietro di me una bottiglietta d’acqua. «Bevi.» Cercai di sollevarmi un po’, ma le braccia mi sembrarono come budino. Lui mi aiutò e mi sistemò un cuscino dietro alla testa. Con le mani tremolanti, aprii la bottiglietta e ne bevvi un po’. «Piano!» mi fermò alzando la voce e io mi tappai le orecchie, tenendo ancora la bottiglietta in mano. «Non volevo» disse riabbassando la voce, «se bevi tanto e troppo velocemente vomiterai, te lo assicuro.» Ripresi a bere come mi aveva detto e dopo il terzo sorso mi tolse la bottiglia dalle mani. «Ora svegliati bene e connetti, poi berrai. Dovrai bere molto» aggiunse posandola a terra.
«Cos’è successo?» ritentai e, anche se quasi con un filo di voce, le parole uscirono.
«Non ricordi niente?» mi domandò e gli dissi a fatica i frammenti dei miei ricordi della sera prima. «Beh, se ti può consolare dopo un po’ che ballavate con…» si trattenne dal dire qualcosa, ma dal suo volto sembravano una raffica di insulti, «… quei tizi. Hanno allungato un po’ le mani e provato a baciarvi, ma non ho fatto in tempo a intervenire che li avete conciati per le feste voi due e vi siete allontanate ridendo» raccontò molto divertito le vicende mie e di Katerina. Sentii una fitta alla nuca e feci per tastarmela. Quando me la sfiorai, per poco non cacciai un acuto dal dolore. «Ti fa ancora male?» chiese guardandomi dietro la testa e poi risedendosi dov’era prima.
«Cosa ho fatto?» chiesi digrignando ancora i denti per il dolore.
«Hai presente la bella sensazione del tappeto morbido?» Annuii. «Hai sbattuto la testa cadendo da quel divano e sei svenuta.»
«Non mi avete portata in ospedale?»
«Scherzi? Così che i tuoi lo scoprissero il tempo di varcare le porte del pronto soccorso e ci facessero fuori a tutti?» Alzai un sopracciglio in segno di consenso, che mi costò un’altra fitta alla testa. «Amy, la nostra… diciamo… domestica è una paramedica e ha controllato la situazione. Non servivano punti o altro, ma era solo una fortissima botta. E la possibilità di un trauma cranico era meno rischioso che incontrare i tuoi, far arrivare la voce anche ai miei e tutto quello che poteva accadere.»
«In effetti.»
«Ora, a parte il fatto che sei nel mio letto, con i miei vestiti e a casa mia… vado a vedere se trovo degli occhiali da sole per farti uscire da questa camera» annunciò alzandosi.
«Perché ho i tuoi vestiti?» chiesi improvvisamente, accorgendomene solo in quel momento.
«Il tuo vestito non si poteva definire comodo e in questa casa ci sono solo cose corte, trasparenti o attillate al femminile» rispose avvicinandosi alla porta.
«Edoardo,» lo richiamai, «tutto ciò verrà cancellato dalle nostre menti.» La mia richiesta era un misto tra una supplica e un ordine.
«Oh, non ci sperare, finto angoletto. Farò in modo di lasciarlo impresso a fuoco nella nostra memoria.» Prima che potessi dirgli altro, aprì la porta, obbligandomi a chiudere gli occhi per il fastidio.
Senza quella luce accecante riuscii a guardarmi intorno. Sullo scaffale di ferro ci avevo preso e sulle mensole c’erano cd, vecchi vinili consumati dal tempo e un giradischi. C’erano anche altre cose come foto, cianfrusaglie e una vecchia chitarra in esposizione sull’ultimo ripiano. Sotto la parete che prima non riuscivo a vedere, c’era un pouf nero, con accanto una scrivania dello stesso colore. La televisione era su quella stessa parete, con la visuale perfetta dal letto, ma si mimetizzava con il nero delle pareti. A destra, una grande libreria stracolma di libri, impilati anche al di sopra del mobile. Non osai voltarmi per vedere cosa ci fosse alle mie spalle, dato che la mia testa girava ancora, ma mi misi a studiare la stanza.
Tutta di un solo colore: nero. Lenzuola, mobili e pavimento non facevano eccezione, l’unica cosa che dava colore in quella stanza era il ferro dello scaffale. Non ero mai entrata in quella casa, ma solo vista di sfuggita da un portone aperto e richiuso. A questo punto, non ci ero mai entrata da sveglia, e mi trovavo nella stanza del fratello della mia migliore amica. Non sarebbe potuta di certo andare meglio.
«Chiudi gli occhi» sentii dire dall’altra parte della porta e così feci. Quando sentii lo scatto della porta chiudersi, li riaprii. «Sua bianchità, mi dispiace, ma mia sorella ha solo il rosso. Quindi per mettere la ciliegina sulla torta a questa giornata, dovrà indossare un paio di occhiali con la montatura rossa.»
«Ma che mi interessa, basta che coprano le mie occhiaie e il sole. Dammi qua» constatai sfilandoglieli dalle mani.
«Attenzione, la botta alla testa è stata più forte del previsto» mi derise. «E ti prendi anche le pantofole di mia sorella perché le mie non te le do» mi sbeffeggiò e poi ne lanciò a terra un paio rosse. Mi scoprii e piano mi misi seduta sul bordo del letto. Infilai i piedi nelle ciabatte e cercai di alzarmi. «Ci riesci?» chiese, ma non rideva più di me.
«Sì, sì, certo.» Non volevo farmi aiutare ancora da lui. Mi diedi una spinta, ma le gambe non collaborarono molto. Mi sorresse velocemente mettendomi un braccio intorno alla vita. Un flash mi apparì nella mente. La scena del ballo con quello che io credevo fosse Davide e che subito dopo scomparse.
«Ehi, stai bene?» si premurò, sembrava in pensiero. Senza dire nulla, mi limitai a guardarlo. «Ti sta bene il look» riprese a scherzare.
Indossavo una maglietta grigia a maniche corte almeno due taglie più grande e un pantalone della tuta stretto al massimo in vita, con abbinati degli occhiali e pantofole rosse. Me lo sarei ricordato a vita, sicuramente. Gli lanciai un’occhiataccia, speranzosa che la cogliesse nonostante gli occhiali da sole.
«Dai, guarda il lato positivo. La tua coda di cavallo ha resistito alla perfezione all’impatto.» Si coprì la bocca con la mano chiusa a pugno per non far vedere che rideva. Girai di scatto la testa per prenderlo in pieno sul viso con i capelli. Scema e infantile… ma avevo ancora i postumi della sbornia, quindi ero giustificata. Peccato che la mia testa continuava a stare sulle montagne russe e con il movimento brusco, caddi sul letto. Ci furono una decina di secondi di silenzio e poi sbottammo entrambi a ridere. «Ci saranno tante di quelle cose da imprimere a fuoco qui» disse battendo l’indice sulla tempia e continuando a ridere. Feci qualche passo e barcollai un po’. «Ti aiuto, andiamo» si propose mettendomi un braccio sulle spalle.
«Vorrei essere ubriaca e dimenticarmi tutto ciò» borbottai.
«Io direi che con l’alcool hai già dato per un po’.» Si chiuse la porta della camera alle spalle.
Svoltammo per alcuni corridoi, di cui però persi il conto e senso dell’orientamento. Non avevo idea di come avessi fatto a cacciarmi in quella situazione. Tanto meno con i vestiti di Edoardo, nella sua camera e con il bisogno del suo aiuto per muovermi. Che figura di merda. Strano che non si fosse già comportato come al solito.
Io e Katerina ci conosciamo da che ho memoria. La “Scuola Primaria d’Élite”, vi giuro si chiamava così, aveva come studenti tutti i bambini con qualità superlative, o meglio, con genitori dai portafogli superlativi. Fin dal primo giorno in quell’istituto, quindi dai nostri sei anni più o meno, siamo finite nella stessa classe. Fino a quel momento i nostri genitori ci avevano assolutamente vietato di frequentarci. Noi, in quanto piccole bambine d’alta società ubbidienti, non ci siamo rivolte la parola. Mai, mai… fino al quarto anno. Abbiamo resistito molto.
Piano piano siamo diventate molto amiche, ma solo nella scuola successiva siamo riuscite ad avere un vero e proprio rapporto. A quanto pareva, all’età di undici anni eravamo entrambe in grado di rimanere settimane intere sole nelle nostre grandi case, così che i rispettivi genitori potessero fare i loro lunghi e lontani viaggi di lavoro. Per questo, per me Stacy è come una madre, anche se può sembrare brutto detto così, ho passato quasi più tempo con lei che con i miei genitori. Credo sia lo stesso motivo per cui la mia migliore amica sia così tanto legata a suo fratello e lui a lei, anche se dimostrandolo a modo loro.
Per quanto possa sembrare strano, vista la fama e le storie che girano su di lui, il ragazzo al mio fianco è sempre stato ubbidiente ai suoi genitori, quasi devoto. A metà del quinto anno della scuola primaria, io e Katerina non siamo state attente e Edoardo ci ha viste parlottare su un pettegolezzo che girava tra le bambine di un’altra classe. Era stato proprio lui a strattonare via con sé la sorella e riferire tutto ai genitori. La notizia era arrivata pure ai miei e non credo serva sottolineare che poi sia successo un putiferio, e anche se l’anno era già iniziato, ci hanno separate. Credo che Katerina non perdonerà mai questa cosa al fratello, come lui non mi perdonerà mai per essere entrata nella vita della sorella. Per questo e un altro trilione di motivi, a lui non vado a genio e le nostre conversazioni più lunghe a oggi sono state al massimo una serie di botta e risposta e insulti. Morale della favola? Non ho idea del perché si stia comportando così con me ora, né tanto meno mi fido.
«Alcolisti anonimi, unitevi!» esclamò il ragazzo varcando la porta di una stanza. D’istinto mi coprii le orecchie con i palmi visto che mi aveva appena strillato nelle orecchie.
«Taci, deficiente!» lo rimproverò con molta raffinatezza una voce femminile. Tra il tono e le parole non mi ci volle niente per capire che fosse la mia migliore amica ad aver parlato, tra l’altro dando voce a ciò che avevo pensato.
Lui, con tutta la nonchalance che lo caratterizza, si allontanò da me e andò a sedersi su una sedia del grande tavolo di fronte a me. Ispezionai con lo sguardo tutta la stanza per capire almeno dove mi trovassi.
A destra c’era un lunghissimo mobile con un’infinità di pensili e cassetti, un lavabo a tre vaschette con subito dopo uno scolapiatti lunghissimo, con impilati una grande quantità di piatti lucidati e infine due grande frigoriferi, di cui uno supposi fosse solo congelatore. Al centro della stanza c’era l’enorme tavolo, che poteva benissimo ospitare una decina di persone o più, con alle spalle una grande porta finestra coperta dalle tende bordeaux. L’altra parte della stanza aveva altri pensili, una grande e lunga base d’appoggio che arrivava fino ai fornelli, contenente una decina di fuochi e per ultima cosa c’erano tre forni impilati l’uno sull’altro.
«Salve! Sono Amy, piacere di conoscerla» mi salutò una donna venendomi incontro e facendomi un leggero cenno con il capo. Aveva i capelli castani stretti in una crocchia alta e ordinata e dei bellissimi occhi nocciola. Era alta più o meno quanto me e, visto i suoi abiti, probabilmente era una domestica.
«Piacere mio! Sono Lucia e mi dia pure del tu» le sorrisi a mia volta.
«Solo se lo fa… se lo fai anche tu» si corresse lei.
«D’accordo, Amy.» Lei allargò il sorriso e mi fece sedere su una sedia in mezzo ai due fratelli. «K, come va?» chiesi alla mia migliore amica. Avevamo questa cosa dell’abbreviare il più possibile i nostri nomi, fino ad arrivare solo alla prima lettera, che solitamente pronunciavamo all’inglese perché aveva un suono migliore.
«Uno schifo» si lamentò scaraventando la testa sulle braccia, praticamente sdraiata sul tavolo.
«Fortuna che i vostri genitori non sono qui a vedervi in queste condizioni, non so chi avrebbe fatto più putiferio» sottolineò Amy posando davanti a ognuno un piatto. Misi a fuoco quello che conteneva e mi resi conto che era un bel piatto di pasta. Ma che ora era? «Sono le tredici e quarantacinque, ragazze» spiegò guardando il mio volto interrogativo e quello di Katerina. Oh mio Dio, non ero tornata a casa e Stacy sarà nel panico, se per caso i miei tornassero all’improvviso, non mi troverebbero. Cercai subito nelle mie tasche il cellulare. Mie tasche… le tasche dei pantaloni che avevo.
«Oh, no! Credo di aver perso il cellulare» mi lamentai disperata. Accanto a me Edoardo sghignazzò, coprendosi poi con l’avambraccio la bocca e voltandosi per non farsi vedere.
Ecco che era tornato il solito stronzo di sempre. Mi ero quasi preoccupata, visto che prima aveva dato qualche parvenza di gentilezza. Lo fulminai con lo sguardo e Amy gli si mise di fronte con le mani chiuse sui fianchi.
«Signorino! Non sia maleducato e stia composto a tavola» lo rimproverò e questa volta scappò un sorriso di vittoria a me. Probabilmente Amy per loro era come Stacy per me. Non credo che nessun altro componente dei nostri personali si sarebbero presi le libertà che si prendevano loro due. Libertà guadagnate per averci cresciuto e accudito in mancanza dei nostri veri genitori.
«Succederà un casino quando tornerò a casa, per di più il giorno dopo, da una festa a cui non avrei dovuto partecipare, con i postumi di una sbornia, dopo probabilmente essere stata ripresa in filmati a dir poco umilianti, essere stata in questa casa e senza cellulare» brontolai tutto d’un fiato e conficcai la forchetta nel pranzo. Sentii un’altra risatina camuffata alla mia sinistra e gli lanciai un altro sguardo omicida. «Finito di ridere, simpaticone?» gli domandai urtata.
«Mhh…» lui finse di pensarci, avvicinandosi a me. «No» sentenziò sfoggiando un sorriso a trentadue denti vicino al mio viso. Io alzai gli occhi al cielo e tornai a concentrarmi sul mio piatto, ignorando lo stronzo al mio fianco. Amy, passando al suo fianco, gli diede una lieve pacca di ammonimento sul collo e scosse la testa.
«Potrei… sapere dov’è il tuo cellulare» disse quasi in un sussurro, come nella speranza che non lo sentissi. Io e Katerina ci voltammo a guardarlo e lui sbuffò. «Mi ha scritto Davide una decina di minuti fa.» A quel nome scattai sull’attenti, «Mi ha detto che ha trovato un cellulare e che se non avessi saputo il proprietario, l’avrebbe venduto.»



🦋Hiiiiii, it's me!!🦋

Iniziano dei lievissimi tralci d'informazioni  sui rapporti tra i personaggi ma aspettate prima di vedere come si evolvono in realtà le cose...
Io... non attendo con voi fortunatamente🙃💞

Domandone: Come vi aspettate il rapporto tra la nostra protagonista e Katerina?

Cosina-ina, vi aspetto sui social per parlare e spoilerare (non troppo si spera 🤫).

IG. sofiasword
TIKTOK. sofia.damici

Stellina ⭐️ if you like this 🥰

Bye, bye. Ci si rivede lunedì!🤍

Ali di Cristallo - The Wings Series Vol. 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora