5. Sapere la verità

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Quella domenica fu strana e non solo per il cielo tinto di grigio per tutta la giornata. Il mio umore era del medesimo colore. La mia concentrazione sui libri si limitava al far scorrere gli occhi sulle parole di inchiostro e voltare le pagine.
La mia testa era china su quegli ammassi di carta, ma la mente vagava nel passato. Ero terrorizzata dell'accaduto, ma soprattutto di non aver alcun ricordo. Poteva essere successa qualsiasi cosa su quel letto mentre ero incosciente. Questa consapevolezza era come ancorata sulle mie spalle e pesava sulla mia coscienza.
Stacy mi tenne d'occhio tutto il giorno e quando fu sera cercò in tutti i modi di aiutarmi a dormire. Tirò fuori le tisane più calmanti e particolari mai viste per riuscire a farmi chiudere occhio. Nessun rimedio, però, riuscì a tranquillizzare il corpo e la mente abbastanza da lasciarmi abbandonare al sonno. Il massimo che ottenni furono solo due ore prima della sveglia.
Il mio aspetto era a dir poco pessimo, ma non potevo permettermelo. Aggiungendo più o meno il doppio della solita quantità di trucco e bevendomi qualche caffè in più, riuscii a essere nella mia limousine in orario.
Sprofondando nei sedili di pelle grigia e con la fronte appoggiata al vetro oscurato del finestrino, non riuscivo a staccare i miei pensieri dall'inevitabile ansia di quello che non ricordavo, ma che un certo castano dagli occhi verdi sì.
Un'occhiata furtiva e curiosa mi arrivò dallo specchietto retrovisore da parte dell'autista e io roteai gli occhi in aria.
«Che c'è, non parlo per una volta e ti dà fastidio?» domandai scortese. Lui mi lanciò uno sguardo truce e poi tornò con gli occhi sulla strada.
Appena arrivati, uscii svogliatamente dalla mia limousine bianca e appena udì il suono della chiusura della portiera, sgommò via a una velocità non adatta al parcheggio scolastico. Non dissi nulla, ma come mio solito alzai entrambe le mani nella sua direzione, mandandolo a quel paese.
Mi fermai per qualche secondo di fronte all'ingresso e contemplai il mio riflesso sulla porta vetrata. Indossavo una gonna bianca a tubino non troppo aderente e lunga un po’ più di metà coscia, una canotta a collo alto, sempre del medesimo colore, una borsa abbinata e il blazer grigio della scuola. Non mi stavo ammirando come una narcisista, ma stavo contemplando se fossi davvero pronta per affrontare la giornata e le persone che avrei incontrato.
Entrai e, come una scheggia, mi si materializzò davanti la mia migliore amica. Mi strinse a sé e, dato che ci misi troppo a ricambiare, si scostò per scrutarmi con uno sguardo a metà tra l’essere curiosa e preoccupata.
«Stai bene, Lucia?» chiese lanciando una mia ciocca nera e liscia a spaghetto dietro le spalle. Le avrei raccontato tutto, ma non ora. Dovevo fingere e anche benissimo per riuscire a farcela cascare.
«Certo!» esclamai facendo un enorme sorriso. Mi sfilai i grandi occhiali da sole bianchi e li incastrai sopra la testa. Lei mi squadrò da testa a piedi, ma prima che aggiungesse altro, vide qualcuno dietro di noi e cambiò espressione.
Mi voltai e notai i due amici, Edoardo e Davide, arrivare dall'altra parte del corridoio. Giacche nere con le rifiniture rosse della scuola, maglie monocolore e pantaloni entrambi di colori scuri e delle proprie famiglie. I battiti mi accelerarono e, per evitare un attacco di panico, mi rigirai. Katerina, nel suo pantalone rosso e canotta nera, iniziò ad agitarsi.
«Che succede?» le chiesi proiettando la mia preoccupazione su di lei, cercando di non pensare a me.
«Dalla festa mio fratello è nervoso» mi informò, «non so cosa sia successo. Lui dice che è perché ho esagerato, ma non sono convinta sia questo… altre volte mi sono ubriacata anche di più e non ha mai reagito così» spiegò alternando lo sguardo da dietro le mie spalle e i miei occhi.
«Non vuole che io vada a una festa per un po’ e abbiamo già litigato per questo, non mi va di farlo ancora.» So quanto loro tengano l'uno all'altra e sono entrambi iperprotettivi. «Ora vado, ci vediamo in classe» scappò via.
Mi allontanai a passo svelto dirigendomi al mio armadietto metallico non lontano. Lo aprii e ci buttai dentro la mia borsa. Nascosi la testa dietro il metallo per non far notare la mia ricerca di un respiro regolare. Quando raggiunse una velocità quasi nella norma, estrassi le cose che mi servivano per le prime tre ore. Se tutti i miei intenti erano stati portati al termine, un boato metallico alle mie spalle mi fece sussultare, rimandando il mio ritmo cardiaco alle stelle. Mi voltai per vedere cosa fosse stato e incontrai una schiena avvolta nel blazer nero, parallela a un armadietto leggermente ammaccato e a tratti tinto di rosso.
Sapevo con esattezza di chi fosse quell'abitacolo metallico. Edoardo si posizionò di profilo, facendomi subito attirare dai suoi occhi verdi, ma poi il mio sguardo cadde sul leggero e lento movimento che faceva con la mano sinistra. Muoveva appena le dita come per chiudere e riaprire il pugno, ma le nocche erano bordeaux e le due centrali perfino sanguinanti. Rimasi a guardarlo senza smettere di chiedermi perché l'avesse fatto. Il suo viso si deformò in una smorfia lievemente dolorante quando ripeté il movimento per l'ennesima volta.
Per quanto odiassi quel ragazzo, quasi mi dispiaceva vederlo così, ma ero molto più curiosa della ragione per cui l'avesse fatto. Era sempre molto suscettibile e, a quanto sapevo, ero la numero uno a farlo irritare, ma a quanto pareva qualcuno mi aveva appena battuto. Mi mossi di poco, lui mi sentì perché si voltò di scatto e mi fulminò. Con il palmo della mano buona diede una botta al suo armadietto facendolo chiudere e si dileguò verso la sua classe.
Rimasi ferma per qualche istante, incerta su cosa fosse accaduto, poi scrollai le spalle e chiusi per niente delicata il mio armadietto.
Avevo altri problemi e il suo migliore amico era alla radice di tutti.
Finite le prime tre ore di lezione, io e Katerina eravamo nell'aula vuota, perché considerata pericolante, utilizzata come accumulo cianfrusaglie.
«Dici che riuscirò a convincere mio fratello a venire alla festa?» mi richiese seduta su un banco con le gambe incrociate. Le avevo detto della festa ed erano già cinque minuti che cercava di trovare le parole per convincere Edoardo.
«Dovrebbero esserci anche i tuoi, lo sai?» le ricordai a metà tra una domanda e un'affermazione.
«Meglio mi sento» sbuffò, imitando la mia posizione. Io avevo le gambe accavallate ciondolanti dal banco e la schiena aderente al legno del banco, come se stessi prendendo il sole. «E tu come fai con…» non finì la frase e tirò un po' su la testa, piegando il collo da un lato per guardare la mia espressione.
Si stava riferendo a Davide, visto che le avevo accennato qualcosa dei miei ricordi sotto forma di incubi. Feci un respiro profondo e non risposi.
«Uh, quanto spero che quella scritta 'aula pericolante' sia vera e vi cada qualcosa addosso.» La simpatia in persona, fornita di un sorrisetto irritante, si era appena palesato nella stanza.
«Oh, che diavolo, non ho mai un minuto di pace» brontolò contro il fratello. Lui, di tutta risposta, la ignorò poggiando le spalle sul muro accanto alla porta.
«Non credo siano pulitissimi quei banchi» ci rimproverò.
«Intanto fatti gli affari tuoi,» iniziai, «li abbiamo puliti prima di metterci, in secondo luogo che cosa vuoi da noi e ultimo, non per importanza, il mio cellulare?» chiesi ruotando infine il viso verso di lui senza spostarmi di un millimetro.
Lui si staccò dal muro, fece un passo nella mia direzione e poi, come se qualcosa gli fosse balenato per la mente, si fermò.
«Non sei nella posizione di avanzare certe pretese» mi fulminò con lo sguardo, che posò poi lungo tutto il mio corpo, facendomi capire che non intendesse solo la questione del cellulare, ma anche di come ero sdraiata. Ma che problemi aveva?
«Scusa, non riesco a trattenermi a lungo dall'ucciderlo» s’intromise la mia amica e con un balzò scese dal banco. Lanciò uno sguardo pieno di rabbia al fratello e uscì dall'aula, passando tra i due fili di plastica che vietavano l'accesso.
«Abbiamo detto che ti devo un favore, okay, ma voglio il mio telefono indietro» ribadii acida, sollevando la schiena.
«Arriverà a momenti, rilassati» mi avvisò alzando gli occhi al cielo. Il tempo di concludere la frase e qualcun altro entrò nella stanza. Si guardò intorno per perlustrare l'ambiente, si fermò quando i suoi occhi verdi scuri incontrarono i miei.
«Tutta tua, amico» salutò Edoardo rivolto a Davide, uscendo dalla porta.
Cazzo, non avevo previsto che saremmo rimasti in una stanza da soli. Lui ricordava sicuramente tutto e io no.
«Sei tu il famigerato possessore del mio cellulare, quindi?» chiesi fingendo una grandissima nonchalance e riposai la schiena sul legno. Lui si avvicinò lento, passandosi le dita tra i capelli castani.
«A quanto pare» commentò a bassa voce, fermandosi davanti a me. Piegai la testa da un lato per poterlo guardare meglio e lui posò i palmi delle mani sul legno. Le sue braccia erano tese e poste ai due lati delle mie gambe accavallate, come se mi volesse mettere alle strette. Tutto ciò non mi piaceva affatto. O meglio…
«Quindi posso riaverlo e finiamo qui tutta questa storia?» Mi alzai sui gomiti. Lui mi scrutò e una strana luce gli attraverò gli occhi.
«Voglio una cosa in cambio» disse diretto. Cielo! Anche lui ora?
«Se sei in cerca di favori, per il momento sono off-limits» ironizzai. Lui curvò le sopracciglia non capendo a cosa mi riferissi.
«Nessun favore,» mi rassicurò, pronto però a darmi una batosta, «solo sapere la verità su una cosa.»
Oddio, non far uscire il discorso della festa, per favore.
«Quanto ricordi?» non serviva che dicesse altro, sapevo esattamente cosa intendesse.
«A cosa ti riferisci?» Come si dice? Negare, negare e negare fino alla morte.
«Questa non si chiama verità, lo sai?» insistette avvicinandosi ancora un po'. Io drizzai la schiena, avvicinandomi troppo a lui e mantenni il suo sguardo.
«Cosa vuoi che io ricordi, mh?» Non gli avrei mai lasciato il gioco in mano.
«La mia stanza…» Il mio battito accelerò un po' e il piede iniziò a fare un lieve ondeggiamento, che interruppi appena me ne resi conto.
«Il mio letto» continuò.
«Nulla. Ho preso anche una bella botta in testa quella sera, non so se lo sai» era la mia scappatoia.
«Mh… presumiamo che io ci creda. Non hai alcun ricordo nemmeno di qualche sensazione?» domandò quasi in un sussurro, avvicinandosi fino a toccare con il suo bacino le mie ginocchia. Trattenni il fiato per una manciata di secondi per mantenerlo regolare, sapevo benissimo di quali sensazioni parlasse.
Il mio sguardo percorse tutto il suo viso, concentrandosi sugli occhi che ricambiarono il mio. Quasi come un tacito accordo, entrambi posammo gli occhi ognuno sulle labbra dell'altro. Le sue rosate e carnose mi attiravano fino intrappolarmi in quei pochi centimetri. Era troppo vicino, mi attraeva e io avevo insufficienti ricordi sulle vicende in quelle quattro mura della sua camera. Dovevo fermare tutto ciò. Anche se contro voglia e a malincuore, sollevai il mio sguardo e lo incatenai ai suoi occhi verdi.
«Non ho idea di cosa tu stia parlando.» Furono difficili da dire, ma dalla mia bocca uscirono sicure le parole. Il suo viso mutò per qualche istante come deluso e quindi continuai. «Se l'interrogatorio è finito, ora posso riavere ciò che mi appartiene?» conclusi acida.
Lui staccò una mano dal legno e da una tasca dei pantaloni tirò fuori il mio cellulare con la cover bianca e me lo porse. Io lo afferrai subito e poi lo guardai di traverso. Volevo scendere da quel banco e andarmene, ma non si spostava e non c'era abbastanza spazio per muovermi mantenendo l'adeguata distanza. Lui lo sapeva bene, ma rimase immobile nella sua posizione, provando a mettermi il più possibile a disagio. Lo fulminai e incurante come il mio solito, scesi con un saltello rischiando di pestargli i piedi e sbattendogli addosso, lui indietreggiò quanto mi bastava per passare e dileguarmi veloce.
Richiusi lenta la maniglia e, socchiudendo gli occhi, feci un respiro profondo. Non mi ero liberata di lui, ma almeno avevo rimandato il più possibile. Mi voltai verso il corridoio e due gemme azzurre come l'acqua cristallina mi scrutavano fino all'anima.
«Non iniziare, ti prego, Michele» sussurrai iniziando a camminare.
«Da quando sei entrata in quell'aula?» iniziò la ramanzina. «Sottolineando che non ci avresti nemmeno dovuto mettere piede,» puntualizzò, «sono entrate e uscite tre persone con cui non dovresti avere alcun rapporto.»
«Mh…» lo incitai a continuare. Sapevo bene com'era fatto, avrebbe detto comunque ciò che pensava, ma sarebbe stato solo più lungo se gli fossi andata addosso.
«Non gli avrai parlato della festa, vero?»
Ma che cazzo?
«Come fai a saperlo tu?» lo guardai di sottecchi, paralizzandomi sul posto.
«Me l'ha detto…» si imbarazzò e lasciò il discorso in sospeso.
«Mic, chi te l'ha detto?» insistetti avanzando un passo verso di lui.
«Me l'ha… scritto tua madre» sussurrò sottovoce una bomba a orologeria. Okay tutto, ma arrivare addirittura a intromettersi fino a questo punto nelle mie amicizie?
«Ma l'ha capito che ho diciannove anni e quindi non mi deve stare sempre con il fiato sul collo e in mezzo alla mia vita?» sputai arrabbiata.
«Beh, basandosi sulle tue amicizie, non sopravvaluterei troppo il tuo giudizio» rispose a tono. Katerina era il nostro argomento fisso e a me non andava giù.
«Le mie amicizie non sono affare suo, né tanto meno tuo!» lo fulminai. «Se sto con qualcuno che non è di vostro gradimento, potete tranquillamente evitare la mia compagnia.»
«E da quando nelle tue amicizie sono compresi suo fratello e l'amichetto?»
Rimasi interdetta, non aveva mai mostrato tanta rabbia. «Non sono nelle mie amicizie e rimane che non è affar tuo. Buona giornata, Michele» tagliai corto ed entrai nella mia aula, lasciandolo solo nel corridoio.
Finite altre due ore e mezza di lezione, provai a metterci più tempo possibile per uscire dalla classe. Volevo evitare chiunque e quando iniziai a trafficare nel mio armadietto, nei corridoi principali erano rimaste una quindicina di persone. Misi tutto il materiale nella borsa, me l'agganciai in spalla e chiusi l'anta metallica. Andai diretta verso l'uscita e appena mi avvicinai, riuscii a vedere una mano con le nocche insanguinate richiuderla.
“Non farlo, Lucia, non farlo. Ma che ti frega a te?” Provai in tutti i modi a convincermi. “Nooo, non lo fare” continuai a pensare mentre aprivo la porta e lo rincorrevo.
«Edoardo!» lo chiamai. Stava camminando veloce e diretto per svoltare l'angolo della scuola e andare chissà dove. Al mio richiamo si fermò e si girò con le sopracciglia incurvate. Quando lo raggiunsi teneva il suo zaino nero sulla spalla sinistra e con la stessa mano la spallina chiusa in un pugno stretto. Le ferite erano ancora aperte, ma non sanguinavano più.
«Dovresti coprirla, rischi di farla infettare» gli suggerii facendo un lieve movimento con il mento per fargli capire a cosa mi stessi riferendo. Lui si guardò la mano e poi mi incenerì con lo sguardo.
«Sei venuta qui per dirmi di non spaccarmi le nocche, magari non ficcare il naso nei miei affari sperando di sapere perché mi sia spinto a tanto e farmi perdere tempo?» chiese stizzito. Ben mi sta. È uno stronzo di prima categoria e io ci parlo pure?
«Cos'è, hai perso l'uso della parola, diavoletto?» mi istigò utilizzando quel nomignolo.
«Hai finito?» Non avrei retto ancora a lungo senza rispondergli. «Non so che problema tu abbia, tanto meno con me, ma so una cosa di te.»
«Spara» disse avanzando di un passo.
«Ci tieni a tua sorella,» i suoi occhi si ingrandirono leggermente e io riuscii a continuare, «faresti di tutto per lei, ma io anche. È la mia migliore amica e io la sua. Come pensi che stia vedendo le due persone a cui tiene di più farsi la guerra e terra bruciata intorno?» Sapevo esattamente dove, come e quando colpirlo.
«Il mio rapporto con mia sorella non è affar tuo» marcò con la voce i possessivi per accentuare il suo discorso.
«Allora nemmeno il nostro. Vi stanno quasi tutti contro, ma a te sembra non importare nulla di nessuno, a lei sì invece e il fatto che sia tu a peggiorare ancora di più le cose come pensi la possa prendere lei?» Piegai il collo da un lato e incurvai le sopracciglia. Lui si avvicinò ancora senza proferire parola e io allargai leggermente le mie labbra in un sorriso. I suoi occhi smeraldo quasi si fusero nei miei per il modo in cui ci stavamo studiando e sfidando senza battere ciglio.
«Stronza» sussurrò assottigliando gli occhi. Io misi una mano nella borsa e ne tirai fuori una fasciatura. Mia madre aveva questa strana fissa per il kit di pronto soccorso, che era arrivata fino a farmene mettere uno in ogni borsa che avessi. Presi il rotolino di stoffa bianca e glielo porsi. Lui lo afferrò stando attento a non sfiorarmi.
«Stronzo» gli risposi e me ne andai verso la limousine bianca che mi aspettava poco lontano.






🦋Hiiiiii, it's me!!🦋

A forza di mentire qui andrà a finire male... è una promessa🌶

Ora la domanda è... Michele, Davide o Edoardo?
Li conoscerete meglio tutti quanti promesso ma nel frattempo, prime impressioni?

Cosina-ina, vi aspetto sui social per parlare e spoilerare (non troppo si spera 🤫).

IG. sofiasword
TIKTOK. sofia.damici

Bye, bye. Ci si rivede lunedì!🤍

Ali di Cristallo - The Wings Series Vol. 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora