Episodio Uno

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Lorenzo adorava Halloween come poche altre feste. Sì... Natale era speciale: il cibo, i dolci, l'atmosfera magica, i regali... ma, a volte, era troppo. Troppi pranzi in famiglia, lunghi, infiniti, soporiferi, troppi parenti che gli strapazzavano le guanciotte, i cuginoni che lo prendevano in giro, gli adulti che giocavano a carte e lo trascuravano, perché non erano giochi per bambini della sua età... Halloween, invece, era perfetto. A nove anni, sentiva che Halloween era la festa ideale, pensata apposta per lui.

Non gliene poteva fregare di meno, del fatto che fosse una festa importata. A volte sentiva le maestre a scuola ripetere che non va festeggiato perché non fa parte della tradizione italiana, che è una festa irrispettosa dei parenti morti e così via. Quando, la domenica, sua madre lo trascinava insieme a suo papà a messa, ci si metteva poi pure il prete a ripetere che era una festa del demonio. Quante scemenze... per fortuna, sua madre non si faceva convincere e gli permetteva di festeggiare Halloween senza problemi, anzi, era una cosa che facevano insieme. Cominciavano presto, già i primi del mese di Ottobre tiravano fuori gli scatoloni di addobbi vecchi, a volte ne compravano di nuovi e per tutto il mese Lorenzo non pensava ad altro che a quale costume indossare. A sua madre non dispiaceva confezionargli un costume ogni anno, di certo preferiva farglielo in casa invece di comprarlo già pronto al negozio.

Suo padre, invece, non era proprio un tipo da festa. E di Halloween diceva sempre che era una americanata. A Lorenzo non importava, certo, gli sarebbe piaciuto che partecipasse anche lui ai festeggiamenti, ma del resto suo padre lavorava sempre, spesso fuori città.

Halloween, insomma, era una cosa sua e di sua mamma. Un periodo dell'anno in cui le loro attenzioni convergevano sullo stesso oggetto, la festa appunto. Certo... stare così tanto a contatto con la mamma era rischioso. Lorenzo, come qualsiasi bimbo di nove anni, non era proprio uno stinco di santo – come si sentiva spessissimo dire, quando la mamma incontrava un'amica, una conoscente o qualche collega di lavoro – e ne combinava di tutti i colori. E, non proprio come tutti i bambini della sua età, c'era un epilogo solo per tutte le sue malefatte: una bella sculacciata.

Il più delle volte se la cavava con una sgridata che gli faceva drizzare i capelli – mentre non c'era nulla del genere horror che gli facesse paura, né gli zombie, i pipistrelli o i ragni, gli bastava una sgridata dalla mamma per sbiancare – e, se necessario, una o due sculacciate di avvertimento. Una bella pacca assestata sul suo didietro, sul momento. Sua madre aveva un vero talento in questi casi, se si aggirava per casa e combinava qualche disastro o semplicemente sfiniva la sua pazienza a suon di lagne e capricci, gli metteva una mano sulla spalla, esercitava quanta forza bastasse per piantarlo a terra e poi con l'altra mano gli imprimeva sul retro dei jeans uno sculaccione sonante, che gli avrebbe lasciato una persistente sensazione di calore e di indolenzimento.

Altre volte... si prendeva una sculaccia come Dio comanda, usando l'espressione pronunciata da sua madre ogni volta. Se si trovava in casa, lo trascinava nella cameretta e partiva il solito rituale, sempre uguale: sua madre si sedeva sul bordo del letto, Lorenzo stava in piedi – spesso piangeva già a questo punto, sapendo cosa gli sarebbe toccato –, sua madre lo teneva fermo per le mani, mentre lo costringeva a sorbirsi una ramanzina. Quando finivano le parole, si passava ai fatti: doveva restare fermo mentre sua madre gli abbassava i pantaloni e le mutandine, poi doveva sdraiarsi su di lui e giù una pioggia di sculacciate, prima con la mano e poi, quasi sempre, con il cucchiaio di legno. Quando sua madre ricorreva a quella sculacciata a tutti gli effetti, finiva sempre in lacrime.

Quello che succedeva dopo, invece, poteva variare. Dipendeva da una serie di fattori. Se sua madre era soddisfatta della sua tenuta durante la sculacciata e aveva smaltito la preoccupazione, lo spavento o la rabbia che gli aveva procurato, ripeteva la ramanzina, mentre restava ancora sulle sue gambe, a chiappette nude all'aria, poi lo carezzava, lo consolava mentre finiva di piangere, lo rivestiva e lo mandava a giocare. Se invece non era soddisfatta... o magari aveva protestato e urlato durante la sculacciata, lo puniva ancora, mettendolo faccia al muro. Altre volte ancora, invece, lo metteva a letto. Questo accadeva se la sculacciata aveva luogo, per esempio, nel primo pomeriggio, così che entrambi potessero beneficiare di un breve riposino.

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