Episodio Quattro

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Simone, davvero, non credeva ci fosse nulla di strano nel prendere ancora le sculacciate dalla mamma, alla sua età, cioè a sedici anni. Forse perché a casa sua le cose erano sempre andate in quel modo. A sua madre, il compito di sgridarlo, punirlo, sculacciarlo e... inibirlo – tanto era iperattivo e bisognoso di essere 'contenuto'. A suo padre, spesso fuori casa per lavoro, il compito di consolarlo e coccolarlo dopo ogni sculacciata. Era sempre andata così. Interrogato a riguardo, non avrebbe potuto dire nemmeno quale fosse stata la prima sculacciata di cui serbava memoria. Davvero, le aveva sempre prese e, all'inizio del terzo anno di liceo, cominciava a pensare che le avrebbe prese per sempre.

Questa peculiarità – che alle medie, magari, poteva condividere con un discreto gruppetto di ragazzini indisciplinati, svogliati e poco propensi al rispetto della quiete, dell'ordine e delle regole scolastiche – una volta giunto al liceo sembrava contraddistinguerlo. Eppure, non gli impediva di condurre la vita di un adolescente ordinario. Certo: aveva molte più limitazioni dei suoi compagni. Certo: ogni conquista era a caro prezzo. Certo: il prezzo della sua libertà d'agire si misurava in colpi di spazzola assestati categoricamente sulle sue adolescenziali chiappe nude. Nondimeno, quella era la sua vita. A invidiare l'esperienza di compagni che sembravano condurre esistenze più libertine, al riparo nell'indifferenza dei loro genitori, non ci guadagnava granché. E poi, c'era quel brivido... ogni volta che agiva consapevolmente contro il volere della madre provava una sorta di brivido di piacere, il brivido del proibito, senz'altro, ma anche l'ebbrezza del pericolo, il gusto dell'incoscienza, della scelleratezza adolescenziale di chi si butta a capofitto in un'impresa che non può che terminare in un disastro annunciato. Eppure, ogni volta, Simone diceva a se stesso – e pure a sua madre, quando lo interrogava in tal senso, alla fine di una sculacciata, tenendolo in sospeso sulle proprie gambe – che sì, senza dubbio, ne era valsa la pena.

Qualunque fosse stata l'esperienza di vita, l'infanzia, la giovinezza, l'adolescenza dei suoi compagni, Simone sapeva che tutti erano accomunati dalla tensione prometeica verso quel sublime impulso, quel brivido che, con l'avvicinarsi di Halloween, assomigliava davvero alla dolce paura che scherzi, addobbi, film horror e quant'altro a tema Halloween instillavano nei giovani cuori.

Qualcuno – i pochi confidenti che avevano accesso all'intero catalogo delle sue malefatte, il suo migliore amico Massimo, persino suo papà, complice, più che genitore – glielo aveva anche detto chiaro e tondo: mi sa che lo fai apposta. Come a dire: è quel brivido che cerchi, è questo a spingerti a compiere azioni da incosciente che sai benissimo di porteranno a fare i conti con la spazzola di tua madre, o, peggio, con il suo battipanni.

Simone era fatto così. Per sua fortuna, quasi tutti lo amavano anche per quell'aspetto contraddittorio. Per la sua invidiabile impulsività, la sua spavalderia, pure per l'iperattività che lo costringeva a fare mille cose insieme, fagocitando la vita anziché temporeggiare e lasciarsi vivere, col rischio, poi, di guardarsi indietro e contare il tempo sprecato. Un rimorso, per una sculacciata che si poteva evitare, è preferibile a un rimpianto, per un'esperienza che si poteva provare e che invece ci si è negati. Ecco: Simone era fatto proprio così.

Solo sua madre manteneva la rigida e adamantina convinzione di poter ancora affinare quell'impavido carboncino del figlio e trasformarlo in un diamante a sua immagine e somiglianza. Ma il carbone, per diventare diamante, deve bruciare, bruciare... e, oh sì, quante volte gli aveva scaldato il sedere fino a farlo bruciare! Che si trattasse di una nota disciplinare, di un voto insufficiente, di una mancanza di rispetto o di una rispostaccia dettata dall'emotività adolescenziale e dalla sua boccaccia lunga, la risposta di sua madre era sempre la stessa: "Dai, sulle mie gambe". E giù sculacciate.

Prima, il riscaldamento. Sua madre applicava la propria mano sulle sue natiche, a volte ancora debolmente protette dai boxer, in ogni caso, inesorabilmente, finiva col calcarla sul sedere nudo di Simone. Riscaldato a sufficienza, era il momento di applicare la punizione prevista. L'attrezzo che sua madre prediligeva nella difficile e minuziosa arte della trasformazione di un carboncino in un diamante era la spazzola. C'era poi il battipanni. Per le occasioni speciali. Per esempio, per tutte le volte che rientrava in casa in ritardo. Chissà quale collegamento mentale le consentiva di accostare, nella propria mente, il battipanni al fattore 'tempo'.

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