Track XXIX - Nunneover

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Annachiara sparì dalla mia vita in maniera, se possibile, ancora più improvvisa e totalizzante di come aveva fatto Elena. Sembrò che non avesse mai davvero incrociato il mio cammino; qualcosa di molto simile al passaggio di una stella cadente, che se per un attimo sbatti le palpebre ti viene da chiederti se l'hai vista sul serio o l'hai solo immaginata.

Anche la sensazione di abbandono che mi pervase non fu la stessa provata ai tempi di Elena. Non saprei dire se la maturità degli anni in più avesse cambiato qualcosa in me oppure se fosse dovuto alla natura del tutto diversa del rapporto ma, durante quel grigio settembre, mi sentii solo svuotato.

In passato avrei pianto tutte le mie lacrime nel segreto delle mie lenzuola, da solo, senza mangiare per giorni e ignorando qualsiasi tentativo di contatto esterno nei miei confronti.

Quella volta, invece, presi la bici e sfrecciai in giro per la città senza meta, meccanicamente, per giornate intere. Le cuffie al massimo volume mi sparavano in linea diretta tra le pieghe del cervello la randomizzazione delle playlist più depressive di Spotify in loop che, però, per qualche motivo, tornavano a riprodurre così spesso Il grande incubo che mi chiesi se il destino non avesse preso il brutto vizio di parlarmi con quei subdoli mezzucci. Molto a tema, in effetti, l'inseguimento fino al "Dream Motel". Il mio angelo custode doveva saper leggere molto bene tra le righe del caos che mi passava per la testa.

I miei deliri di solitudine e vagabondaggio ciclistico furono bruscamente interrotti da Love. Ebbe il mazzo di intercettarmi e braccarmi nei giardinetti costieri del Rålambshovsparken, come un detenuto evaso da Azkaban, in uno dei rari momenti in cui ero stato costretto a fermarmi per riprendere fiato dopo ore di pedalate ininterrotte.

Avevo eluso le sue chiamate per svariati giorni.

Mi costrinse ad andare a mangiare una pizza affermando che, magari, un po' di sapore di Napoli mi avrebbe fatto rinsavire. E anche riprendere tutti i chili che stavo sudando 'ncopp a chella bicicletta. Proprio poco più in là, sul lungomare della Stadshuset, c'era la migliore pizzeria napoletana di Stoccolma.

Mi lasciai convincere.

– Almeno ti lavi ancora? – si informò, il naso arricciato con un po' troppa serietà, mentre aspettavamo la nostra ordinazione a uno dei tavoli accanto alle grandi vetrate affacciate sulla strada. Era una tiepida giornata di sole ma, in quel periodo di transizione verso l'autunno, il tempo cambiava a velocità allucinante di minuto in minuto. Quasi come il mio umore.

Feci finta di non sentire e provai a spostare il discorso altrove; il mio ostinato mutismo si tramutò quindi in una tempesta improvvisa di domande sulla sua tesi. La mia era ancora in alto mare, ma divenne presto l'ultima delle mie preoccupazioni.

Quando giunse al tavolo la mia salsiccia e friarielli fumante, fui sopraffatto dall'urlo del cameriere che ci servì: – Filippo!

Il mio nome riecheggiò in tutta la saletta.

Lo sguardo alzato piano, con un po' di sospetto, finì per incontrare i grandi occhi neri di Yousef. Allora urlai anch'io di rimando, meravigliato: – Uè, fratm'! Ma che cazzo ci fai tu qua?

Il mio vecchio amico prese una sedia e si accomodò qualche momento al nostro tavolo per raccontarmi di com'era arrivato a Stoccolma all'inizio dell'anno, incoraggiato da un suo cugino che aveva trovato lavoro in quella catena di pizzerie, dove l'ambiente era bello e pagavano bene.

– Vediamoci più tardi, così mi racconti anche tu quello che stai combinando – si raccomandò, con occhi affettuosi e colmi di genuina felicità di rivedermi. In effetti erano anni che ci eravamo persi di vista, nonostante ci volessimo un gran bene e in passato avessimo l'abitudine di giocare a calcetto insieme ogni settimana.

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