Track VI - E te veng'a piglià

908 114 564
                                    


Così la sera seguente conobbi Stefano, che era due anni più grande di me e studiava batteria jazz al Majella.

Mi inchiodò tutta la serata a parlare di lezioni, insegnanti, esami, l'Erasmus che voleva fare a gennaio, le compagne di corso che non gliela davano. Dopo un paio di birre ci scambiammo i numeri di telefono con la promessa di rivederci in conservatorio, e me ne tornai presto a casa.

Era stata una settimana pesante.

Trovai mamma schiattata sul divano a guardare la TV e mi accoccolai vicino a lei. Non avevamo quasi più avuto dei momenti quieti in quel modo, per anni, e mi attanagliò la nostalgia. Lei doveva aver provato la stessa cosa, perché mi tirò a sé per abbracciarmi e baciarmi i capelli.

– Lilluccio mij, ti si' fatt' ruoss! – esclamò con grande orgoglio, condito da una spruzzata di malinconia nella voce.

Mi rimproverò di non raccontarle più niente della mia vita, del lavoro, dello studio, che era da troppo tempo che non andavamo a pranzare dalla nonna.

Io mi scusai con avvilimento; concorsero in mio sostegno le troppe cose da fare tutte in una volta e, allora, mi resi conto di non averle ancora mai parlato di Elena.

Sentii forte e improvvisa la pulsione di farlo.

Gliela mostrai in foto sul cellulare e raccontai di zia Letizia e del pianoforte cimelio di famiglia, mentre lei ascoltava entusiasta e mi riempiva di domande coinvolte.

Discutemmo dell'organizzazione del diciottesimo di Teresa, che cadeva giusto la stessa settimana del mio esame d'ingresso al conservatorio, e delle richieste che avevano fatto i suoi genitori per farle una sorpresa: ovvero che avrei dovuto suonare qualcosa o, per meglio dire, voluto, visto che avevo molto piacere a suonare per la mia migliore amica.

Suo padre era intenzionato a rendere grandioso il traguardo della maggiore età dell'unica, amatissima figlia, e aveva ingaggiato perfino una band di professionisti con vari strumenti musicali a disposizione su un palco all'aperto. Dunque anche quello andava ad aggiungersi alla mia lista di impegni sociali e di studio matto e disperatissimo.

Arrivò settembre troppo presto.

Una volta tornata dalle vacanze, Elena prese l'abitudine di raggiungermi regolarmente al bar, quasi tutti i pomeriggi.

Finito il mio turno andavamo a mangiare il gelato, i crocchè, i taralli, in giro per il centro o lungo via Caracciolo. Oppure mi trascinava a questa o quell'altra mostra, in bellissimi saloni e chiostri, perché era appassionata di stampe d'epoca e di poster cinematografici da collezione.

Conobbi finalmente anche sua madre, Carmela, che venne a fare aperitivo al bar un paio di volte insieme alla figlia e, una volta, pure insieme a sua sorella Letizia.

Melina era una donna molto riservata, pragmatica e onesta, dai cui modi traspariva (come lettere cubitali ondeggianti sulla sua testa) l'ardente volontà di crescere Elena con la sua medesima ambizione e caratura morale.

Non mi trattò mai male, ma risultava evidente che la relazione di sua figlia con me non le faceva né caldo né freddo perché credeva che le storie nate in adolescenza fossero destinate a durare poco; probabilmente per esperienza personale, visto che si era sposata e divorziata molto giovane. Perciò non si curava se fossi o meno un genero modello. Aveva come filosofia di vita il lasciar fare a Elena tutto quello che voleva purché non intralciasse il grande piano di farla diventare una donna forte, indipendente e benestante come lo era lei.

La prima settimana di settembre scivolò via così, e io non vedevo l'ora di liberarmi della fatica al bar perché mi stava uccidendo la salute. Tuttavia, il proprietario propose a mia madre di farmi continuare a lavorare nei weekend anche dopo aver cominciato il conservatorio, e lei mi supplicò di accettare perché una cosa di soldi in più serviva sempre e, inoltre, quell'impegno mi avrebbe "responsabilizzato" (qualunque cosa volesse dire).

HEARTETECADove le storie prendono vita. Scoprilo ora