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"Non dovevamo vederci io e te?"

Simone era intento a guardarsi le dita delle mani, lunghe e sottili, bianche e all'apparenza tanto comuni, mentre si stringeva come un riccio sulla panca polverosa del Witches Brew, il pub di sempre, in cui aveva dato appuntamento a Giulio appena un'ora prima.
Aveva alzato lo sguardo e se gli occhi gli si erano alleggeriti alla vista rassicurante del suo amico, aveva poi subito cambiato espressione e posto quella domanda tremula, quando dietro di lui aveva scorto le figure familiari di Chicca, Laura e persino Monica.

Ci manca solo che spunti Matteo.

E avrebbe tanto voluto iniziare a controllare i suoi pensieri perché, come un pesce fuor d'acqua, proprio Matteo si guardava intorno spaesato a chiusura di quella fila improbabile nel pub ancora poco affollato.
Il solito violino scheggiato stava suonando da solo, esibendosi in un'aria complicatissima, allegra, in totale antitesi con l'espressione contrita del corvino che si fece ancora più piccolo sulla piccola panca, nonostante le gambe chilometriche. 
Aristotele in quel momento doveva essere molto sensibile allo stato d'animo del suo stregone, perché si aggirava come un'anima in pena sul bordo della panca, senza mai allontanarsi più di una manciata di centimetri dal corpo nervoso del suo padrone, lamentandosi un po' nel tragitto. Le vibresse fremevano e finiva per soffiare infastidito a qualsiasi avventore sussurrasse anche solo un oh, che carino, passando vicino a loro.

Giulio sospirò e prese posto accanto al corvino, anche se il grosso gatto nero non volle saperne di spostarsi e rimase a far da sentinella tra Simone e l'amico, ma almeno si era seduto e si limitava a guardarsi intorno. La panca scricchiolò un po' sotto il loro peso e intorno, qualcuno esplose in una risata fragorosa. C'era odore di sidro e fumo, ma anche una lieve nota legnosa che proveniva dagli arredi vecchi, più che antichi.

Il violino stregato, complice una corda troppo consumata, steccò una nota, mentre gli altri componenti dell'improbabile combriccola si accomodavano intorno al tavolo.

"Non fare il bambino ora" asserì Giulio, facendo un cenno al proprietario del locale, unico dipendente di quel posto un po' fatiscente, ma tanto familiare. "Sai bene che in questo momento ti serve tutto il sostegno possibile."

Simone si imbronciò ed incrociò le braccia, nonostante gli fosse stato appena intimato di non assumere un atteggiamento infantile.
Aristotele si arrampicò sulle sue gambe e si sedette sulla sua coscia, la coda che agitata si scontrava prima col bordo del tavolo e poi col maglione blu di Simone.

Il corvino lanciò uno sguardo di fuoco a Chicca e quella ebbe l'ardore di roteare gli occhi al cielo.

Poi però riportò lo sguardo su di lui e la sua espressione mutò, ora dispiaciuta.

"Simò, mi dispiace, va bene?"

Matteo le aveva posato un braccio sulle spalle e guardava entrambi come stesse seguendo un match particolarmente avvincente di ping-pong.

"Mi dispiace se t'ho fatto la morale, non è compito mio, e soprattutto me fido di te" guardò per un attimo gli altri componenti seduti al tavolo "È solo che non voglio che soffri di nuovo, nessuno de noi 'o vole."

Simone abbassò lo sguardo e vide Aristotele avvicinare il nasino nero al suo maglione, in una carezza delicata. Il ragazzo portò le dita ad affondare nel suo pelo e sospirò.

"Lo so"

Chicca si sporse sul tavolo e allungò le mani verso di lui, che subito le prese tra le sue, in una stretta calda, familiare.

"Allora facciamo pace?"

Il corvino si fece sfuggire un sorrisino quasi rassegnato e: "Pace", esalò.

"Allora?" la voce squillante di Laura si frappose in quel momento di tenerezza "Chi hai ucciso?"

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