Agli esausti tepali dell'elleboro nero - Lo_Spettro -

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Vidi stillare il liquore, stropicciare il glauco

in un'alba d'idrogeno e prima che la mia retina

aumentasse la luce, agli esausti tepali dell'elleboro nero

declinai il mio esaudire, nell'attesa della deiscenza

e dei primi odori sospinti delle magnolie.

E' veleno, veleno di una nervatura mi dissi

e nel dilucolo, in quel decuplicar di vita,

scelsi l'opra di morire. Col senno di poi,

raggiunta a poco a poco la ragione,

avvertii il perché della mia inettitudine:

ho disgusto. Della gioia. Della comunità.

Di un qualcosa nel riuso della noia.

Presiedetti la mia resa quindi,

credendo di vacillare per sempre sull'orlo

di un non so quale principio

e invece...

Il ciglio sodale ritorto crebbe

in un brillante sereno.

Ridestai ed improvvisamente, indefessa, una Mòira,

nel frullio d'una giocosa vivacità,

in gloria, espulsomi l'utile assaggio,

con le labbra, seppellì la mia cagione. Mi rianimai.

Recuperai la vista, mi rialzai come da un loculo,

glissai l'increspatura del mio pensiero

e sempre a delle rovine di un cielo, nel dipinto colore

questa volta di un caustico tramonto, in un istante

capii che la mia neoesistenza venne tesa, avviluppata

ad una infiorescenza impalpabile:

vidi me e l'elleboro, il suo profumo, un altro mondo,

allungato, di vita sonnambolica,

ed io rauco, impacciato, in un languore,

sfinivo come l'esausto prillare d'una trottola.

sfinivo come l'esausto prillare d'una trottola

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