black coffee • grey soul

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«Vivo minuti che sembrano coriandoli, che cadono – colorati – dal cielo

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«Vivo minuti che sembrano coriandoli, che cadono – colorati – dal cielo. Precipitano e intaccano le mattonelle chiare. Scagliano la vita e indugiano sulle cortecce brune, sui campi di grano, sui tetti rossi delle case di campagna. Piovono gocce di sole, ma del sole non c'è traccia, e neppure una nuvola arranca sulla volta sgombra. Sento solo i brividi di una vecchia sinfonia.»

Dean Moore legge le stesse identiche righe per la terza volta in meno di cinque minuti, senza smettere nemmeno per un attimo di far scattare convulsamente la penna a sfera con il pollice. Anzi, la frequenza di quel fastidiosissimo clic-clac aumenta a ogni parola divorata.

Joe da dietro il bancone gli scocca un'occhiataccia, ma Dean è troppo assorto per accorgersene. Strappa via l'ennesimo foglio dal block notes e lo appallottola nervosamente. Fissa sconfortato quello successivo, una distesa grande, minacciosa ai suoi occhi. La mano che impugna la penna si avvicina alla carta, tremante come un ragazzino davanti ai giornalini porno scovati in qualche recondito cassetto del padre. Rimane non so quanto tempo lì, a non più di due millimetri da quel vuoto color neve che ora gli sembra una montagna invalicabile dove s'annidano mostri sconosciuti.

Dean sospira e finalmente appoggia la punta sul foglio con la stessa solennità di chi sta compiendo un atto di coraggio. Ma non scrive nemmeno una parola, sconfitto. Ha questa crisi d'ispirazione da non sa neanche più quanto tempo. Crede di stare per impazzire.

«Così mi spaventi i clienti, Dean.» la voce di Joe è carica di quel paternalismo che rende impossibile distinguere se il tono sia più burbero o compassionevole. Si è avvicinato al tavolo che lo scribacchino occupa ormai da mesi senza riuscire a buttare giù mezza riga, tra le mani la caraffa ricolma di caffè. E per la quarta volta da stamattina, gli riempie la tazza.

«Grazie, Joe.» le profonde occhiaie violacee di Dean quasi spaventano il nerboruto barista.

«Figliolo, non è che tutta quest'arte ti fa male? Hai l'aria di uno che ha bisogno di distendere i nervi più che di caffè.» le parole gli escono di bocca in un vago rimprovero. Senza che possa rendersene conto, e prima ancora di prestarci attenzione, gli cozzano contro e rimbalzano lontano.

Con le orecchie piene di una realtà distorta, Dean solleva un sopracciglio. Ha le labbra chiuse, forse addirittura sigillate da una sutura improvvisata e rozza, ma non sanguinano, né gli fanno male, e l'unico sapore che punge il palato umido è quello che, sulla lingua, si dissolve in amara caffeina.

Ha l'aria disinteressata tipica di chi non ha neanche ascoltato perché assorbito da altri pensieri. Si rigira la tazza tra le mani per rimirare il liquido scuro con fare assente, le palpebre socchiuse.

Dean Moore, classe millenovecentonovantatre, pensa alla vita come la sceneggiatura di un film di Woody Allen. Non fa un pasto decente da giorni e ha accumulato otto ore di sonno in tutta la settimana, ma non riesce proprio a rinunciare alla vita precaria, un po' snob e bohemienne dell'intellettuale militante. Per rincorrere il sogno di diventare uno scrittore famoso, ha rinunciato a tutto. Ha rinunciato a Barbara, che dopo sei anni di relazione era stanca di ripetergli un giorno sì e l'altro pure di darsi una svegliata, di trovarsi un lavoro, uno qualsiasi, di crescere, santiddio, fare una qualunque cosa che comporti guadagnare veri dollari americani.

Le One Shot della BlondeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora