3• Di gente che cresce e gente che balla

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3 luglio 1993
🎧: What is love - Haddaway

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Il Fava era una palla.

Luca aveva farfugliato qualcosa a proposito di un favore da riscuotere e se l'era filata dopo nemmeno due shots.

Beato lui.

Per distrarmi dalle chiacchiere vuote di quell'essere, focalizzai l'attenzione su un tizio a poca distanza da noi, un rasato dagli occhi iniettati per i troppi Campari, che abbaiava qualcosa a proposito di sindacati, di corsi sulla sicurezza e di spogliarelliste che aveva tra le mani, il tutto mescolato, completamente senza senso logico, con imprecazioni in dialetto e risate sguaiate.

Luca se ne stava appollaiato quattro sgabelli più in là e mi lanciava di tanto in tanto qualche occhiata obliqua, casuale, mentre sorseggiava la sua birra. La mia non aveva fatto nemmeno in tempo a scaldarsi nel boccale.

L'Irish era pieno. Magari si era sparsa la voce che fosse il mio compleanno, un pretesto come un altro per andare alla ricerca di alcolici in compagnia delle solite facce. C'era un sacco di gente, perfino il ripetente che era finito in classe nostra: aveva ordinato uno jager ghiacciato convinto che l'Irish avesse quanto meno il frigo funzionante. C'era Filippo, con i suoi occhiali dalle lenti spesse e l'evidente acne sulle guance, che mi fissava come sempre con quel moto di malcelato disprezzo mescolato a piccole dosi di una vaga, inquietante eccitazione; non mancava neppure Dante, con quel qualcosa di sporco e colloso agli angoli della bocca ogni volta che sorrideva.

Risate di ragazze che si sistemavano distrattamente i capelli, o l'orlo dei vestiti, che si tastavano in continuazione le ciglia come se avessero un tic per non lasciar raggrumare il mascara. Risate di ragazzi incerti e impacciati, che non vedevano un'insegna, delle mura, dei tavoli e un bancone, ma solo un posto dove sentirsi adulti facendo tintinnare bottiglie di birra semivuote, con quel timore, tenuto ben nascosto dentro, di essere mal interpretati, di venire additati e presi in giro dal prossimo, di essere guardati di sbieco e di essere visti per ciò che erano davvero. Sé stessi, in tutta la loro miseria.

«E alla fine quella testa di cazzo ha dovuto darmi il massimo, altrimenti mi fotteva l'anno e mi toccava ammazzarlo.» gracchiò il Fava sollevando la sua birra tintinnante di ghiaccio. Mi teneva in scacco come sempre, un braccio attorno alle mie spalle e quel contatto indesiderato e carico di disagio. Sempre fiero, risoluto, pieno di sé. Il Fava probabilmente era allo stadio avanzato dell'autoconvinzione, mi dava proprio l'impressione che credesse fossero vere quelle piccole palle che raccontava a se stesso e agli altri per non sentirsi insignificante. Era arrivato a crederci davvero, forse, ma vi assicuro che non avrebbero retto nemmeno di fronte al Tribunale dei Minori di Pinocchio.

Illuso.

Seguii con lo sguardo una ragazza minuta con un vestito scollato che si snodò un po' goffamente tra le panche consunte e appiccicaticce dell'Irish; la musica dance sparata dal jukebox a cui ero appoggiata era come un bombardamento nucleare, il ritmo cadenzato e stancante dei bassi spingeva la gente a ballare. Beh, tranne me. In quanto involontaria attrazione della serata, mi era pure toccato declinare una serie di laidi inviti a buttarmi in quella sottospecie di pista che si apriva tra i tre divanetti e il bancone.

Non era la musica, non era la compagnia di dubbia qualità, non erano nemmeno le malcelate allusioni al fatto che "solo un anno e non sarà neppure reato che usciamo insieme" a infastidirmi. Non erano la calca, il sudore, il disagio strisciante della gola secca, e neppure l'impossibilità di districarsi da quella matassa umana a farmi sentire un pesce fuor d'acqua.

C'era qualcosa di sbagliato nell'essere lì, nel condividere il mio spazio con quelle persone. Io lo sapevo, me lo sentivo sin dal primo momento in cui avevo accettato di andarci.

Le One Shot della BlondeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora