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CARUS PATER

"Quando arrivi al limite della sopportazione, sei costretto a scegliere se affogare nel passato e nei tormenti o ricordare che la vita è così breve da non poter essere condotta nella disperazione e nella sofferenza"

Prima di iniziare a descrivere le mie giornate attraverso pagine di diario, è di fondamentale importanza capire cosa ha iniziato a scatenare l'ansia, motivo per cui dedicherò alcuni capitoli a questo proposito.

Il mio primo trauma risale a diversi anni fa: fatti gli accertamenti del caso diagnosticarono un male terribile a mio padre, talmente fulminante da aver danneggiato gli organi vitali ormai in modo irreparabile, rendendo inutile l'idea di sottoporlo a un trapianto. 
Pensare che all'inizio non versai neppure una lacrima da tanta tensione e dall'impatto emotivo. Questo per dire quanto mi abbia toccato nel profondo questo episodio, sotto ogni aspetto.
A seguito della fase iniziale dello shock era come se improvvisamente il tempo avesse deciso di fermarsi per ore, giorni, settimane, mesi, rendendoli monotoni, privandoli persino dei più piccoli momenti di allegria.
Questa perdita ha suscitato in me il peggior senso di vuoto mai provato prima, di indescrivibile dolore.
Quando mi sono trovata a voler affrontare la situazione, non riuscivo a comprendere perché il destino avesse scelto di una tale via per me.                                                                                         
Iniziavo a chiedermi per quale motivo ogni cosa sembrava essermi contro, che magari è in un primo momento solamente sfortuna, convinta che potevo cavarmela da sola.                                                             
Avevo molti dubbi, vivevo le mie giornate sperando durassero poco e riducendomi a svegliarmi e voler tornare a riposare per non pensare a nulla, nascondermi nei sogni e dimenticarmi di vivere, per fuggire da ciò che fa troppo male al cuore piuttosto di affrontare le circostanze, per quanto difficili.
Nonostante la severità e il rigore di mio padre, ho molti ricordi teneri d'infanzia, vacanze, gite e non voglio dimenticarli, vorrei restino con me, solo senza farmi soffrire.                                                                       
Sembrano vivi, vissuti e mai consumati o collocati da qualche parte: sono sparsi e mescolati e confusi, appaiono e compare una lacrima, poi due, tre e così per diverse ore; per vivi intendo molto carichi dal punto di vista emotivo tanto da essere quasi percepibili con i sensi, come se gli episodi fossero avvenuti poco prima.
Sento spesso la paura costante di ricadere nelle angosce: una metafora potrebbe essere quella di una mano che afferra la gola e cerca di trascinarmi sempre più in basso, in quel vuoto irreale, tutt'altro che luminoso e gioioso, bensì buio e colmo di senso di solitudine.
Per la verità anche nei rimorsi: non essere stata all'altezza della situazione, chiedermi se qualcuno si fosse accorto che non avevo pianto e forse avrei dovuto, a dimostrazione di quanto tenessi a lui, il timore di aver passato assieme poco tempo e non averlo sfruttato a fondo.
Il pensiero poi è diventato quello che la soluzione ottimale per fuggire dal dolore fosse dormire o addirittura in eterno, pur sapendo di avere davanti una vita e non un gioco.
Mi sono chiesta dove effettivamente andasse a finire questo male, i miei giorni oscillavano tra un brivido di felicità e una grande, lunga sofferenza, scanditi solo dall'alba e dal tramonto, dalle lancette dell'orologio e non da momenti precisi, non da momenti di routine quotidiana.
La risposta è che il mio corpo, per avere una valvola di sfogo, all'inizio manifestava il suo malessere attraverso la sensazione di oppressione sul petto, sul cuore, tachicardia, vertigini e mancanza di respiro.
Avevo normalizzato e compreso di non preoccuparmi fosse un infarto o qualcosa di grave e quindi gestibile nei limiti.
La cosa strana era che per un periodo avevo uno strano mal di gola e sembrava persistere sebbene mi fossi imbottita per settimane di medicinali.

Se è vero che il tempo cura allora avrei dovuto già avere gli occhi luminosi e pieni di meraviglia, non arrossati, gonfi, colmi di lacrime, conseguenza delle ore passate a ripensare alle cose terribili e a quanto vorrei non fosse mai successo.
Trovo incredibile come il nostro cervello reagisca agli eventi in modo a volte inconscio, a volte improvviso, mettendo in allerta il resto dell'organismo in caso di necessità.
Ammetterlo era pressoché impossibile ma avevo bisogno di qualcuno di fiducia a cui raccontare delle mie paure, di come la stavo vivendo e sfogarmi senza giudizio, magari di esterno alle vicende, in modo da avere una persona che sapesse dare una sua versione oggettiva del mio punto di vista e liberarmi dai dubbi, dagli oscuri pensieri pronti a mostrare solamente il lato peggiore di ogni cosa.
Andare avanti significava fingere di sentirmi bene, sorridere anche nel panico, nascondere le lacrime perché le consideravo un segno di debolezza e un qualcosa di cui vergognarsi.
Tuttora odio dover mostrare le mie emozioni così apertamente alla gente, non so mai quale possa essere la reazione, magari pensano ami attirare l'attenzione, magari che stia fisicamente male e sapere come comportarsi può rivelarsi, mi rendo conto, complicato sia per chi vive la situazione, sia per chi fa da "spettatore".

𝐼𝑙 𝐷𝑖𝑎𝑟𝑖𝑜 𝐷𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑃𝑎𝑢𝑟𝑒Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora