Cibo

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Fin da quando sono nata, il cibo ha svolto un ruolo fondamentale nella mia vita, e non in senso buono.

Quando sono venuta al mondo ero sottopeso, appena due chili e qualche grammo eppure, la mia pediatra, ossessionata dalla genetica che mi portavo dietro (da premettere che nessuno nella mia famiglia era affetto da obesità), aveva deciso di mettermi in dieta a pochi mesi. Il che, purtroppo, è stata la mia rovina.
Si era cominciato con i dolci. Pochi, rari, dati di nascosto ad una bambina che non capiva. Poi si era passato al pane, 'non mangiarne troppo, sono carboidrati, ingrassi!'. Venivano contati i biscotti due volte al giorno, veniva contato il pane. Si faceva mente locale per vedere se, quando rimanevo sola in cucina, mangiassi qualcosa, ne prendessi un pezzetto. I dolci venivano nascosti, a dicembre si inizia a 'mangiare di meno perché ci sono le feste'. Ci sono i paragoni con le amichette, con le compagnette che sono più magre, 'vedi come sono loro? Tu invece devi sempre mangiare'.

Ricordo di un Natale di tanti anni fa, in cui qualche pezzetto di cioccolato fondente di troppo mangiato a scuola mi aveva fatto vomitare anche l'anima una volta ritornata a casa. Il risultato? Riso in bianco per tutte le feste, con la scusa che ero stata male.
Mi ero ingozzata? Sì. Avevo iniziato quel meccanismo che mi sono portata dietro fino alla fine della scuola, ossia quello di mangiare più che potessi fuori casa, di riempirmi di tutto ciò non potessi mangiare in casa. I miei amici ormai lo sapevano: appena andavo da qualcuno di loro mi facevano trovare la dispensa aperta, ed io mangiavo di tutto.
Era salutare? No. Sapevano ciò che facessi? Sì ma, come al solito, quando si trattava di me era, secondo loro, quasi sempre una recita, sempre un'esagerazione.

Così sono andata avanti per anni. Durante il liceo la mia fame nervosa ha raggiunto nuovi livelli: il bar della scuola era ben fornito, ci potevi trovare di tutto, perfino i gelati durante il periodo estivo. Poi, quando tornavo a casa, mangiavo normalmente, i pantaloni non si chiudevano, i rimproveri aumentavano. Ma io continuavo a mangiare.

Ad un certo punto, però, qualcosa cambia. Comincio anche io a pensare, a farmi problemi, a non vedermi più bene. Iniziano, perciò, i periodi di fame, quelli in cui non si tocca niente a cui, tuttavia, si aggiungono quelli in cui ci si mangerebbe il mondo.

Un circolo vizioso da cui non si esce, che si prolunga all'infinito.
Iniziano le battute anche a scuola. 'Attenti, che se passa lei si mangia tutte cose!', 'Non puoi metterti magliette con la pancia di fuori', 'Che fai, oggi non mangi?', 'Non puoi sederti sulle mie gambe, sei troppo pesante'. All'infinito, costantemente, un vortice di parole che ti penetra dentro, che ti si insinua in ogni meandro del cervello, che non ti lasciano via di scampo.

Una via di uscita sembrava essere la fine del liceo.
Dopo l'estate avevo iniziato un percorso con una dietologa, avevo perso un bel po' di chili, mi sentivo meglio, in famiglia sembravano essere quasi tutti più sereni, si vantavano, quasi fossero stati loro gli artefici di questo mio cambiamento.

Eppure più andavo avanti più non mi sembrava abbastanza. Il mantenimento, per quanto non sgarrassi, non stava andando come previsto soprattutto perché arrivava l'Erasmus. A settembre partivo con le raccomandazioni della dietologa che ripeteva a gran voce di mangiare il pesce tre volte al giorno (cosa che era, se non impossibile, era abbastanza difficile).
Quei sei mesi fuori, sotto questo punto di vista, non sono stati per niente semplici. Mantenevo più che potevo la dieta, alle volte preferivo non digiunare o mangiare solo verdure se, per caso, avessi introdotto nel mio corpo qualcosa che "non andava". Era diventato, quindi, un circolo vizioso: mangiavo, poi andavo a qualche festa, mi sentivo in colpa, mangiavo solo verdure il giorno dopo. A tutto questo, infine, si aggiunse l'ansia per gli esami, ed io ritornata alle solite vecchie e cattive abitudini: mi ingozzavo, mi sentivo in colpa, digiunavo, alle volte vomitavo (come d'altronde ho sempre fatto, ovviamente di nascosto) e quando sono ritornata in Italia tutti non hanno fatto che farmi notare i chiletti in più che avevo assunto, quelli che mi ero portata dietro dalla Spagna. Soluzione? Nuovo dietologo, un amico di famiglia, 'non ci farà pagare, poi è vicino casa'. Risultato? Una persona che mi seguiva a tratti, una dieta rigida e poco flessibile, ed io sempre più frustata da tutta la situazione. Perché non mi potevano accettare così com'ero? Dovevo per forza essere una modella? Dovevo per forza entrare in una taglia 38? Che poi cos'è una 38? Solo un numero, niente di più, un numero che non tiene conto di tanti fattori come il peso, i muscoli.

Da quel momento in poi è stato ed è tutt'ora come andare sulle montagne russe. Ci sono momenti in cui non mangio e momenti in cui mangio anche troppo (nel mezzo, tuttavia, ci sono momenti normali, quelli in cui tutto sembra stabile). Il problema, però, è che ho ancora quasi ogni singolo componente della mia famiglia che mi dice come dovrei comportarmi oppure no. Eppure, quando ho chiesto realmente aiuto, quando ho chiesto di poter essere seguita da qualcuno con cui parlare dei miei problemi, il tutto è stato totalmente minimizzato.

Oggi sono consapevole di aver imboccato un brutto sentiero. L'ennesima battuta, l'ennesima parola, l'ennesimo 'eh ma se tu mangiassi un po' meglio' e, improvvisamente, a cena ci sono solo verdure, e tutti si compiacciono per questa mia scelta.
Tutti tranne uno. La persona che, in questo momento, mi sta più vicino al cuore e che, tuttavia, alle volte tendo a spingere lontano per un motivo o per un altro. Ma questa è un'altra storia.

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