Sono nel letto con gli occhi spalancati, la fronte madida di sudore, il cuore che batte a mille, le braccia che tremano, il sonno assente.
Eccola di nuovo, eccomi di nuovo, è sempre la solita storia. Ad ogni minimo inconveniente la mia testa smette di funzionare correttamente e va in tilt, comincia a macchinare, comincia a pensare troppo, a rimuginare, a non stare bene. Le rotelle del mio cervello vanno alla velocità della luce, si affannano a pensare alla qualsiasi, a creare qualsiasi tipo di problema. E, perciò, mi ritrovo con l'affanno a cercare il respiro, a provare ad uscire da tutta questa situazione, ad uscire da questa maledetta bolla che mi sta soffocando.
La prima volta che io e lei ci siamo incontrate è stato, senza dubbio, durante la maturità ma, sicuramente, non è stata lei la causa scatenante, bensì quella pressione che, sin da quando sono nata, tutti mi hanno messo addosso: essere perfetta, essere brava a scuola, essere la migliore, essere la prima della classe, essere uguale a chi non c'è più, avere tanti amici, essere socievole, essere meno timida. Anni ed anni in cui mi è stato chiesto di tutto e di più, anni ed anni in cui, ciò che facevo, non era mai abbastanza. Mai abbastanza brava, mai abbastanza amichevole, mai. E questa situazione si è sviluppata sotto due punti di vista: inizialmente con l'autolesionismo e, poi, con l'ansia.
La prima volta avevo dodici anni ed ero in prima media. Le medie, infatti, non sono state per niente un periodo facile per me, il bullismo era abbastanza evidente ma i professori non solo facevano finta di niente, anzi, incolpavano me delle malefatte commesse dalle due ape regine (che erano visibilmente raccomandate). Non vestito abbastanza bene, vestito strana, "hai coraggio a girare con certi pantaloni", "vedi, dovresti andare in giro così", "no io al cinema non la voglio invitare" e quella che, ancora oggi, mi perseguita, detta ad un'altra compagna di classe: "se ti paghiamo, ce la togli di torno? Non vogliamo che ci vedano con lei". Ancora oggi mi chiedo cosa avessi che non andava. Ero esattamente come loro, forse un po' più timida, silenziosa, leggermente impacciata, ma niente di troppo grave. La ragazza che sarebbe diventata la mia migliore amica (salvo poi voltarmi le spalle, sai che sorpresa) si era avvicinata a me per soldi, perché era pagata. E la mia autostima era troppo fragile all'epoca, io ero ancora troppo fragile, desiderosa di avere quell'accettazione che pensavo fosse la cosa più importante al mondo. Mi chiedevo come fosse possibile che, due ragazzine con cui ero dalla prima elementare, si comportassero in questo modo (in realtà, col senno di poi, non era poi così difficile. A sette-otto anni avevano convinto molti degli altri compagni a non avvicinarsi ad un'altra bambina, mia vecchia compagna d'asilo, dicendo in giro che puzzasse e non si lavasse. Spesso mangiavamo solo io e lei, fino a quando i genitori, stanchi dei soprusi delle due in questione e della professoressa di letteratura, loro complice e amica, non l'hanno cambiata di scuola. E aggiungerei, beata lei).
Mi infliggevo tagli sui bracci continuamente e, proprio in quel periodo, ho iniziato a portare tantissime bracciali, una quantità spropositata di cerchi intorno al braccio, abitudine che, ormai per motivi diversi, dura tuttora. A casa, però, nessuno si chiedeva come mai di questo bizzarro hobby, semplicemente si limitavano (come sempre) a criticarmi e a prendermi in giro.
Sono andata avanti per anni, ogniqualvolta non mi sentissi abbastanza compariva un segno. E si è trattato di innumerevoli episodi.
Quando ero al liceo non ero una persona che rimaneva impressa, non ero una persona che veniva considerata per altri motivi al di fuori dello studio (ero l'amica di tutti quando si dovevano passare i compiti ma l'amica di nessuno quando si trattava di uscire), non ero spiritosa, non parlavo. Mi limitavo a rimanere accanto alle persone, a fare da carta da parati al resto, contenta di essere considerata e di non essere presa in giro, a differenza di quanto successo alle medie. E nella mia testa era sempre un tormento continuo. Mi confrontavo con le altre e non ero mai abbastanza: mai abbastanza bella, mai abbastanza magra, provavo un forte disagio nello stare con loro, i ragazzi che mi piacevano non mi notavano, ero quella a cui chiedere consiglio per le altre, l'eterna amica. Un mio compagno di classe, poi, aveva finto interesse soltanto per la sicurezza di avere qualcuno che gli passasse i compiti.Ed io mi autodistruggevo, me la prendevo con me stessa, non con gli altri, sentivo di avere qualcosa che non andava, sentivo di essere inutile. Di essere uno spreco di spazio, di essere uno spreco e basta.
E i tagli aumentavano, aumentavano quando tutto non andava, aumentavano quando mi rendevo conto che il ruolo che io stessa mi ero scelta iniziava a starmi stretta, aumentavano quando la mia famiglia non capiva o fingeva di non capire.
I tagli sono andati avanti per molto tempo fino a che, dopo aver toccato il fondo, non ho smesso. Ho smesso perché ho trovato altri modi per distruggermi, per farmi del male, per disprezzarmi. L'ansia di fare la qualsiasi, gli insulti che quotidianamente mi rivolgo...continuo ad autodistruggermi senza nemmeno rendermene più conto, è diventata una routine. Ogni giorno mi ripeto quanto sia uno spreco di spazio, quanto non meriti di stare al mondo. La mia famiglia non nasconde il disgusto che prova ogni volta che ha a che fare con me ed io, per quanto assurdo possibile, ho iniziato ad assorbire questa situazione senza fare niente. Vado avanti ogni giorno sperando di non dovermi svegliare, di non dover andare avanti ancora. L'ansia non mi fa vivere, le paure non mi fanno vivere, la situazione in sé non mi fa vivere. Sono ormai entrata in una spirale autodistruttiva e non riesco ad uscirne.
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Seasons of life
General FictionAttraverso una singola parola o una singola frase, la protagonista innominata ripercorre la sua vita, da quando ne ha memoria fino ad oggi, in un viaggio introspettivo alla scoperta di paure, fragilità e traumi.