I. An infinitesimal particle

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💎 Muriel 💎

Una particella infinitesimale risucchiata da una calca di particelle infinitesimali impegnate a camminare meccanicamente sui marciapiedi della Valentine Ave in una fredda sera di fine ottobre. Ecco chi ero.

Eppure, da corpo minuscolo e insignificante agli occhi del cosmo, vendicavo il mio diritto di unicità non tanto per i lunghi capelli neri che mi avvolgevano le spalle e si scompigliavano indomiti al vento, ma per il fatto che mentre tutti erano diretti alla partita degli Yankees io mi recavo nell'unico luogo di New York che mi facesse sentire a casa e che di certo non era lo stadio.

Come al solito mantenevo un'andatura veloce e al contempo appesantita, come se sulle mie spalle si fossero accumulati tutti i guai del mondo, un vaso di Pandora sotto le modernissime fattezze di una borsa di pelle consunta e di ben poco valore. Mi strinsi di più nel mio cappotto, ero vicina alla mia meta.

Il freddo scalfiva impietoso il mio viso, abbellito da un velo di angoscia che trepidava di essere squarciato da una genuina emozione, e le mie mani, ormai violacee e cristallizzate dal gelo insinuatosi nell'epidermide.

Il sole stava calando anche nel West Bronx, tingendo di un timido arancione le placide acque del fiume Harlem, mentre il crepuscolo aumentava le sue pennellate bluastre per preparare un degno ingresso ad una notte senza stelle e senza luna.

Probabilmente sorrisi quando l'insegna rosa al neon del Loew's Paradise Theatre abbagliò i miei occhi scuri come pece liquida. L'architettura imponente dell'edificio stonava con tutta la decadenza dell'area circostante, come una candida dea vestita di blu con un sole dorato in mezzo al petto circondata da visi illividiti dall'invidia.

Mi sentii a casa quando mi avvicinai al gabbiotto esagonale dove quel martedì sera nessuno stava facendo la fila. Salutai con un sorriso gentile il Signor García che, senza il bisogno di alcuna richiesta, mi consentì di entrare reclinando complice il capo verso l'ingresso.

Era un omaccione paffuto, sulla sessantina, con le guance sempre arrossate e gli occhi buoni. Era stato un amico di mio padre che, intenerito dalla mia anima esteta, mi permetteva di sgattaiolare nel teatro, sbirciare le prove generali degli attori e persino di entrare all'ultimo secondo prima dell'inizio di uno spettacolo senza mai dover sborsare un centesimo.

Le mie membra provarono un flebile sollievo quando varcai la soglia e l'aria calda investì la mia esile figura alla stregua di uno Zefiro artificiale.

Il Paradise Theatre era un luogo che continuava a vivere nel passato, precisamente nel pieno Barocco che cercava di fuoriuscire prepotentemente dalle pareti lignee solcate continuamente da colonne corinzie con capitelli tinti d'oro. Le luci calde come lucciole giganti creavano un gioco di ombre sulle volte affrescate del soffitto e percorse dai bassorilievi dorati e polverosi.

Le mie gambe conoscevano perfettamente la strada e ogni volta quasi si muovevano senza essere comandate fino alla platea costellata di poltroncine rosse e sbiadite. Quella centrale in penultima fila era la mia poltrona in sere come questa, dove gli unici a partecipare alle prove generali dell'imminente prima erano i miei occhi e gli attori sul palco.

Ormai conoscevo a memoria tutte le scene e le battute del copione al punto che avrei potuto recitare con la compagnia un ruolo qualsiasi. Ma io ero una spettatrice di quel dramma teatrale così come lo ero della mia vita e non avevo nessuna forza da opporre a quella di inerzia che avviluppava da mesi il mio animo.

Mi rilassava reclinare il capo all'indietro e dilatare le pupille alla vista dell'immenso soffitto blu sopra la mia testa. La distanza sembrava ridursi e il cuore allargarsi di tutti i sentimenti che quel soffitto aveva assorbito e ascoltato pazientemente dal 1929 e a cui le sfingi marmoree facevano la guardia. Ero una particella infinitesimale del cosmo, ma in un luogo tanto suggestivo quanto sopra le righe.

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