III. A bicycle without wheels

26 6 18
                                    

💎 Muriel 💎

Una volta sentii dire alla signora Peters, la portinaia del condominio in cui vivevo, che nell'esatto momento in cui si perdono entrambi i genitori si smette di essere figli.
«È come togliere le rotelle alla bicicletta, nessuno potrà rimettertele di nuovo.»
Lo disse mentre lucidava i pavimenti dell'atrio del palazzo, con quell'atteggiamento naïf che si teneva sempre cucito addosso come una seconda pelle.

Lì per lì mi sembrò una deduzione logica alquanto banale, accompagnata da una similitudine ad effetto, non stava nemmeno parlando con me ma con l'inquilina del terzo piano.

Mentre ero seduta sul mio vecchio divano, però, avvolta da una coperta intrisa delle mie lacrime salate, quella frase mi risuonò improvvisamente in testa, iniziai a ripeterla come una litania macabra e il peso della sua verità mi piombò addosso come un'incudine gelida.
Tremai.

Io avevo smesso di essere figlia da undici giorni. Da allora ero caduta a capofitto in un limbo in cui tutto era immobile, un po' come il pulviscolo intrappolato nel raggio di sole che penetrava dalle tende dischiuse del soggiorno.

Il destino mi aveva tolto la seconda rotella alla bicicletta, anche questa volta senza preavviso, e io ero caduta violentemente sull'asfalto senza casco e senza ginocchiere.

Prima che tutto cambiasse ero davanti al Paradise Theatre. Il mio animo dondolava tra le sensazioni che mi aveva appena trasmesso Edward e il dolce calore dei suoi occhi ambrati che mi alleggeriva il petto. Poi la voce atona di una sconosciuta al di là della cornetta ridusse a brandelli il velo di ottimismo che si era poggiato sulla mia aura e le mie labbra persero bruscamente la curva del sorriso che mi si era stampato in faccia.

Tutto iniziò a essere confuso, allucinato da una paura convulsa e febbricitante.

Il bus che mi portò al Lincoln Medical Center non mi era mai sembrato così lento, lo stomaco continuava ad aggrovigliarsi assecondando il ritmo folle del mio cuore, il respiro si fece sempre più corto e pesante.

Mi misero sotto al naso una pila di scartoffie che firmai senza battere ciglio, riuscendo a malapena a distinguere qualche terribile parola che mi marchiò a fuoco la pelle.

Poi iniziò l'attesa. Un'attesa logorante, che mi attanagliò la mente rendendomi impossibile pensare ad altro. Potei comprendere a fondo il significato di impotenza e annegarci dentro. Ero in apnea.

Non saprei dire quanti caffè dei distributori buttai giù per restare sveglia e quante lacrime versai sulle ampie spalle di Kyle bramando un conforto impossibile.

Mia mamma restò tredici ore in sala operatoria. L'eternità mi parve uno stato temporale decisamente più breve e sopportabile a confronto.

La speranza iniziò a farsi largo in me solo quando potei finalmente rivederla. Era irriconoscibile, ma il suo cuore batteva ancora. Stava lottando con tutte le forze che le erano rimaste contro il destino, eppure le parole neutrali dei dottori alle mie orecchie suonarono come una danza funebre.

Due interi giorni ad aspettare che uscisse dal coma, che aprisse i suoi occhi corvini, che mostrasse segni di lucidità. Invece, tutto ciò che ottenni fu il beep prolungato del display accanto al suo letto che infettò la mia mente come madido arsenico.

Mentre tutto intorno a me crollava, strinsi la sua mano senza vita lasciandole per sempre in custodia un pezzetto della mia.

Da undici giorni ormai il mio animo era un parossismo di sensazioni contrastanti, pregne del dolore più oscuro e della rabbia più limpida, e cominciai a chiedermi quanto avrei potuto resistere prima di impazzire.

Blue LipsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora