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«La tristezza ha bisogno della gioia per avere senso

Mortebianca

Ho fatto ancora quello strano sogno.

Sto fermo, sulla sabbia, a guardare fin laddove cielo e mare si toccano. L'acqua è sempre calma. Uccelli indistinti, lontani, volano via ogni volta. Sembra un luogo tropicale, ed io sono solo nel silenzio. Un sole che non c'è si riflette sulle increspature. Luci sfocate e calde m'incantano prima di dissolversi. Dalle onde chete, poi, splendono nuovamente e con innaturale leggerezza si addensano in piccoli globi che fluttuano nell'aria.

Che posto è questo? Qual è la sua natura?

Mi capita di pensare, di illudermi, che quando sogniamo osserviamo scorci di altri mondi. Ha ragione però Freud, il senso di cosa vedo nel sonno è una rielaborazione di cosa ho invece vissuto. E poiché non sono mai stato bravo a risolvere gli enigmi, riapro gli occhi e smetto di pormi domande.

La schiena è andata, le gambe sono a pezzi. Quando lavori fino a tarda serata, ormai notte, al mattino senti tutti i tuoi trent'anni e ti vergogni ricordando che c'è chi sta peggio di te. Non posso permettermi un'ora di sonno in più, ho un giorno di impegni da rispettare con piacere. Ho persone da incontrare, amici che pagano quanto me la forzata decisione di tornare a fare un mestiere i cui orari non combaciano con la vita delle persone comuni: una colazione a breve e un aperitivo pomeridiano per farmi perdonare quelle sere che, ahimè, non posso esserci.

La casa è pulita, profumata, ma vuota. Sono usciti tutti presto. Mia madre, mio padre, persino mia nonna ha approfittato della bella giornata per portare a spasso il cane - non esce mai. Ero solo sulla spiaggia del sogno, sono solo al tavolo della cucina, a sorseggiare un caffè mentre guardo gli arredi e le pareti che i "vecchi" hanno rinnovato con vernici glitterate durante la quarantena.

Questa non è casa mia. Io non appartengo più a queste mura da parecchio. Loro sono andati avanti, hanno scelto i loro arredi e le loro pitture. Stare qui mi pesa.

Ma non ho potuto fare diversamente, non avevo un posto dove andare dopo essermi stancato dei viaggi per gli oceani. Ancora qualche mese, giusto il tempo di reinserirmi con un lavoro stabile e poi ricomincerò da capo, come ho sempre fatto. Tanto, per ogni volta che qualcosa è andato male, qualcos'altro me ne ha date di ragioni per proseguire.

Pensando a un domani prossimo, in cui di certo non applicherò vernice glitterata alle pareti di un appartamento mio, odo dal corridoio il cigolio di una maniglia. Non è andato a scuola, mio fratello. Avrei dovuto sospettarlo dalla porta chiusa della sua stanza. Al mio "buongiorno" replica con un cenno cordiale del capo, di recitato rispetto, perché siamo soliti chiamarci l'un l'altro con titoli professionali: ragioniere, ingegnere, avvocato, colonnello, dottore. Si siede a tavola, in mutande, col cellulare in mano e l'aria di chi non ha voglia di prendersi in giro. E lo capisco, a modo mio.

«La mamma lo sa che oggi bossi*?» chiedo, stavolta senza cenno di risposta.

Siamo diversi, non si direbbe che il padre è il medesimo. Lui è biondiccio, io moro, lui è magrolino, a me piace mangiare. Ma in cosa davvero differiamo è nella parlantina - avessi avuto metà della sua lingua socievole, diamine. Strano a dirsi, giacché non mi parla da giorni, assorto nell'attesa di messaggi che tardano ad arrivare. Almeno fin quando non ripone il telefono sul tavolo, per massaggiarsi le palpebre stanche. Sbuffa e dice: «Le ragazze hanno bisogno dello psicologo».

Mi fa sorridere. Ha dodici anni, o li aveva ieri, o cinque minuti fa. La vita è trascorsa troppo in fretta nel tempo che sono stato via, perché a vederlo oggi, quindicenne, non mi pare più grande di quando ci salutammo prima del mio imbarco. Però mi preoccupa, e sarei bugiardo e disonesto se affermassi il contrario. Ho il sospetto che dietro al faccino lindo, un po' beffardo e tipico dell'adolescente che si è fatto, ci siano quei segreti difficili da confidare, se non peggio. Senza dubbio, ci sono quelle paure che chi vuol mostrarsi duro nega pure a sé stesso. Questo mi spaventa come se fosse figlio mio, ma di genitori apprensivi ne ha già due.

«E non hai visto niente» ci scherzo su. «Stai tranquillo, crescendo peggioriamo tutti.»

Non crederebbe a quel che in realtà penso, e temo che neppure abbia voglia di provare ad ascoltarmi. O forse non gli sono andati giù i rimproveri della settimana scorsa, quando in un momento di megalomania giovanile mi ha costretto ad assumere le parti del fratello cattivo, che approva i divieti dei genitori contrari a certi giri di amicizie.

«Ah, bene» borbotta. «Allora ci metto già una pietra sopra e lascio perdere, così mi risparmio il sangue marcio.»

Sorrido. «Avanti, raccontami.»

Silenzio.

«Incerta su quello che vuole?»

Silenzio, un velo di imbarazzo.

«Non vuoi proprio supporto, testina» fingo di arrendermi. «Va bene, tieniti i patemi e non rinfacciarmi quella cosa che ripeti quando sbotti. Com'è che dici?»

«Non sai ascoltarmi» si fa il verso da solo, contenendo il riso.

«Guardi che orecchie ho, dottore. Magari non condivido il tuo punto di vista, ma ascoltarti... quello sono sempre pronto a farlo.»

Si rosicchia il labbro inferiore, guarda altrove. Che magnifica età per assaporare l'esistenza, con le gioie esplosive e i dolori che negli anni divengono solletichi. Eppure: «No, niente, meglio pensare ad altro».

Un'ultima goccia di caffè nella mia tazza, piacevole come le brezze che sulla spiaggia dei sogni mi hanno risvegliato. Sono vivo e ho fame di altra vita. Mi alzo in piedi.

«Su, mettiti un paio di braghe e un giacchino. A casa a martoriarti nell'attesa di una risposta di una ragazza confusa non ti ci lascio.»

«Non è che ne ho tutta 'sta voglia...» mormora, ma il mio mutismo a seguire, anticipo di un fastidioso aspettare che la giovincella scelga dietro quale ragazzino andare, gli è sufficiente. O, chissà, è la focaccia che gli offrirò a dargli lo sprint. «Okay, vengo. Ma non darmi lezioni sulle ragazze, te che manco ne hai una.»

È quello che pensa, e glielo concedo. Vi è tuttavia un abisso tra pensare e sapere.

La sabbia è fine, bianca. Il canto del mare intona una melodia che mi ha accompagnato nel blu per due lustri. Sono nel mio sogno, sono in cucina con mio fratello, a cui do le spalle. Sospeso nello spazio tra due universi tangenti, so che è giunto il momento di raccontargli perché me ne sia andato.

«Credi? Io la ragazza ce l'ho» rispondo alle parole che un poco, nel profondo, hanno aperto una ferita. Lui dapprima si stupisce, ma no, continua a credere alla sua idea. Strano il mio volto rilassato, sorridente.

«E chi è, scusa?»

È il momento, sì. Devo però trovare le parole giuste e un'atmosfera degna. «Facciamo un salto giù in quartiere, poi andiamo a farci due tiri al campetto» gli dico. «Oggi seguirai una bella lezione di storia del posto dove sei nato.»

Una storia recente, al tempo dei palloni scuoiati e dei Linkin Park, quando dei telefoni non c'importava e la nostra fede era nella canzoni che parlavano di noi. Una storia di primi amori e di cadute sull'asfalto che formavano gli uomini, al tempo in cui il cielo si colorava di azzurro sopra Berlino ed io incontravo lei.

*Saltare la scuola.

Spazio autore

Si torna alla struttura della doppia linea temporale, presente e passata. Adesso, un protagonista trentenne che, come il sottoscritto, vede crescere il proprio fratellino e ci si rivede tanto quanto si preoccupa; ieri, un ragazzo con una dote e tanti pensieri.

No, non ho intenzione di accavallare troppo le linee, essendo che la coerenza testuale ne risulterebbe compromessa.

Sì, è un dramma. Non un teen drama, non un dramma romantico. Un dramma di vita, una storia che, per come l'ho vista, non deve per forza rientrare in una specifica categoria, come tante storie che, purtroppo, non vengono ascoltate.

C'è un ma: di nuovo non per forza ciò che è drammatico deve avvilire. Il nostro protagonista, infatti, ha una capacità naturale che stiamo per scoprire.

Un'altra canzoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora