Quando a calciare la sfera è un ventenne di grande esperienza come centravanti, un metro e novanta di statura per quasi cento chili di prestanza, concepisci la debolezza delle tue braccia. La prima cosa che senti è lo schiocco sui palmi, poi lo sfregamento della rotazione, poi il bruciore sulla pelle, infine i muscoli tirati mentre la palla rimbalza fuori dall'area di gioco. Hai parato un tiro che ti avrebbe potenzialmente staccato la testa, in una grigia giornata di fine maggio che è come la notte della finale di Champions League. Il ventenne volge il compiacimento verso gli amici sui motorini; i compagni ti saltano addosso perché grazie al tuo salvataggio, se adesso si segna il gol decisivo, sarà la prima volta che batterete i ragazzi più grandi per la conquista del campetto, dopo mesi di tentativi.
Fa male. Sono debole.
Capirai più avanti che quei bulletti con la sigaretta in bocca e le ultime Nike ai piedi, a differenza tua, la partita della vita non l'hanno mai vinta. E quando ci sono riusciti, proprio quando erano come te, sono stati picchiati da quelli che al tempo erano i ragazzi più grandi e cacciati fuori dal campetto in barba alle regole. Ti hanno lasciato vincere, a te e ai tuoi amichetti, perché lo sanno che importanza ha questa vittoria, l'impegno, il "pagamento con il sangue". Dopotutto, nonostante le brutte facce, l'atteggiamento ciondolone e le bestemmie gratuite, non sono malaccio - ti hanno preso per un cuginetto da svezzare.
Fa male. Papà...
Papà non c'è, mio padre non c'era. Nemmeno lui era cattivo: era soltanto giovane, un po' troppo. Le cose con mia madre, anch'ella appena trentenne, non andavano bene. Sposati anzitempo, con un figlio capitato quasi per caso poco dopo aver raggiunto la maggiore età, stavano passando uno di quei profondi, angoscianti momenti che un bambino non può capire.
La sensazione di bruciore alle mani me la sarei tenuta per mesi nella memoria, assieme al timore che, da un giorno all'altro, i miei avrebbero divorziato. Era l'estate del duemiladue, venivo spedito in campagna da mia nonna, allora ancora nelle condizioni per poter vivere da sola. Nella casetta a fianco, un gruppo di bambinetti svizzeri sguazzavano in piscina; io ero oltremodo preso dai miei pensieri per domandargli se potessi unirmi a loro e me ne restai per i fatti miei, a pregare che mamma e papà risolvessero e a far rimbalzare il pallone, mio unico amico, contro un muro.
Debole, sfigato, non sei nessuno. Calcia più forte.
E calciai più forte. Diavolo, la foga che ci misi, tra la rabbia e l'ispirazione data da Holly Hutton. Calciai per cinque minuti di fila, badando a prendere bene la mira contro le venature di crepe che ricordavano la sagoma di una porta.
I miei erano in crisi, a scuola mi sfottevano per i miei buoni voti, la campagna mi deprimeva, i miei primi istinti verso le ragazze non trovavano sfogo perché, diciamocelo, non ero per niente desiderabile, né in vista, né alla moda, neppure abbastanza pietoso da ricevere un bacino di incoraggiamento, mentre gli amici d'infanzia le ragazzine se le portavano dietro ai cespugli e crescevano assieme.
Distratto, digrignando i denti fino a sbavare sentimenti ignoti e logoranti, calciai senza curarmi di un ferro sporgente dalla grondaia. Il pallone, un molle Tango, fu perforato. E lì, nel lasso di un secondo, rammentai di non avere soldi per comprarne un altro. Anzi, neanche volevo sostituirlo: era il mio amico, trafitto da un rugginoso ferraccio, ed esalava gli ultimi respiri. Nulla potei fare per salvarlo dall'ormai segnato destino di sgonfiarsi fino a diventare un inutile ammasso di gomma.
Un pallone andato. Per me fu doloroso. Sì. Fu doloroso perché a dodici anni scoprivo la solitudine, l'incomprensione, la paura di un domani incerto.
Però a me piacevano i libri e già ero al corrente di un principio che non mi spaventava: ad azione corrisponde reazione uguale e contraria. E se vero era che "volontà, chi ce l'ha è il più forte dei forti, niente lo fermerà*", struggermi innanzi ai problemi non avrebbe certamente cambiato le cose. Dunque smisi di lacrimare e portai le spoglie del mio amico in casa, dove gli applicai molto nastro adesivo.
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Un'altra canzone
RomanceL'adolescenza è un'età difficile. Per accorciare le distanze con il suo fratello quindicenne, un cantante racconta le storie della sua giovinezza, della vita senza tecnologia e di un amore ancora vivo per una ragazza mai dimenticata.