LUNEDI' MATTINA

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Quando Antonio mi telefona, verso le nove e mezza, io sono in classe; di solito non prendo nemmeno il cellulare (strettissimo divieto dello staff del Dirigente!) ma, comunque, proprio oggi l'ho dimenticato nella borsetta, per fortuna in modalità silenziosa. È stato un caso, benché io non creda che esistano casualità negli eventi della vita, ma che, anzi, tutto abbia un senso e ci parli; con tenacia ammirevole, visto che noi, gente di dura cervice, non capiamo veramente mai nulla. Sto cercando affannosamente un fazzoletto mentre tento di riassumere l'uso del congiuntivo in parole talmente semplici che mi capiscano anche le piastrelle del pavimento, quando vedo accendersi il display.

Antonio? Adesso? Se mi chiama dev'essere successo qualcosa, lo sa benissimo dove mi trovo. Quale dei figli...

Mi precipito dunque nel corridoio, facendo un vago cenno con la mano ed uno sguardo truce che significano: "Ragazzi devo rispondere se qualcuno osa parlare anche solo sottovoce mentre sono al telefono poi facciamo i conti!": potenza della mimica dei docenti non esattamente di primo pelo.

Antonio mi chiede se posso andare all'ospedale, nel pomeriggio; Francesca è stata ricoverata. 'Se'? Pensa per caso che non ci sarei andata?

Non mi racconta altro; mi promette che mi spiegherà, che non si tratta di niente di grave.

"Sicuro?"

"Sicuro sicuro".

"Mi fai parlare con lei?"

"No, perché ora sta facendo un esame, ma deve stare qui solo una settimana, più o meno."

"Antonio, ti prego..."

"Senti, non farmi parlare, adesso; ti dico tutto oggi quando ci vediamo. Stai tranquilla, non sarà una cosa lunga."

"Ascolta, qui sta per suonare, mi faccio sostituire e arrivo."

"No". Deciso. Decisissimo.

"No?"

"No - tono più dolce - no, non è veramente il caso, stai tranquilla. Ci vediamo nel pomeriggio, ala sinistra quarto piano, camera 57".

Io non sono mai tranquilla quando mi si dice "stai tranquilla", ma tanto non c'è niente da fare, a quanto pare. Non ricordo nemmeno di essere rientrata in classe: ma ovviamente lo devo aver fatto, se non altro per trasportare armi e bagagli nella classe successiva, dove ripeto lo stesso argomento parola per parola, esempio per esempio.

Chi ho incontrato nel corridoio, tra un'aula e l'altra? Ho parlato con qualcuno? Lo sa Dio, io no. Sicuramente devo avere incrociato dei colleghi: ci muoviamo quasi tutti ad ogni suono del campanello, come i personaggi di un carillon perfettamente sincronizzati.

Ma certo che devo aver parlato con qualcuno. Lo faccio sempre, in automatico. Da ragazza Francesca mi rimproverava di essere troppo fiduciosa nel mondo, ma in ogni modo non mi è mai successo niente di particolarmente spiacevole per aver chiacchierato con chicchessia. Figuriamoci con i colleghi che conosco da anni. Sicuramente non si tratta di contenuti fondamentali per il futuro del mondo, tant'è vero che non me lo ricordo, davvero. Ho altri pensieri dominanti.

Perché non è solo il fatto che Francesca sia all'ospedale, non è la prima volta; non è mai successo, però, che mi si raggiungesse a scuola, parlando con quel tono a metà tra il sottovoce e il non-posso-parlare per dirmi di muovermi soltanto al pomeriggio...

Di fatto, non ricordo nulla del resto della mattinata. Immagino di aver lavorato, di essere uscita, riponendo (spero!) registri e libri nel mio cassetto; so di essere andata a casa, perché ora sono qui, e ho telefonato all'ospedale per sapere con esattezza gli orari di visita.

Passo di stanza in stanza per vedere se c'è qualcuno: nessuno. A parte calzini, maglie, fogli di carta, computer sommersi da pile di libri, vasetti di creme e fondotinta sparpagliati in ogni luogo. Almeno abbiamo superato la fase dei camion di plastica formato gigante e dei Mini Pony. Era una fase che mi piaceva un sacco.

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