Lunedì pomeriggio 2

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Nel frattempo, però, anche senza volerlo le mie gambe hanno inserito il pilota automatico e mi hanno portata fin davanti a casa. Perciò, decido di entrare, tanto, prima o poi, dovrei farlo comunque.


Frugando nella borsa per cercare le chiavi, penso che non era questo l'epilogo che avevamo programmato. Non siamo ragazzine, i cinquanta li abbiamo passati da un po', ma pensavamo di farci lunghi viaggi una volta che io fossi andata in pensione, almeno due all'anno noi da sole, o di fare le nonne, o di scrivere cartoline ai figli da qualche improbabile love boat in giro per i mari del mondo.

E ora? Tutto rovinato per colpa di uno stupido tarlo? Ma perché devo sempre essere proprio io dalla parte di chi rimane? Perché devo perdere tutto, un pezzetto alla volta? Quante altre cose mi chiederai ancora, Signore, solo perché sai che ce la farò, in un modo o nell'altro?

Eppure io, da parte mia, sono sempre stata certa che Tu non mi avresti mai chiesto un passo più grande di quello che potevo fare, anche se mi costava una spaccata per riuscirci.

Comunque, per il momento va ancora bene. È lunedì e, se i medici ci hanno preso, mancano ancora sette lunghi giorni... e poi... puf! Niente più Francesca. Mi viene voglia di dire qualche parolaccia.


Mi viene voglia anche di non tergiversare oltre e di entrare in casa il più in fretta possibile. Mi ricordo di non avere lasciato nemmeno un biglietto per avvisare del mio ritardo, per cui, se qualche figlio fosse nel frattempo tornato a casa, si sarebbe di certo preoccupato della mia assenza.

Mi viene voglia di essere distesa sul divano, di lasciare che i miei ragazzi mi tocchino e mi abbraccino e mi passino un po' della loro strabordante energia.

Quando erano piccoli aspettavo che si fossero addormentati, poi mi stendevo per qualche minuto accanto a loro nel lettino: mi bastava per eliminare gran parte della stanchezza, la tensione della giornata. Avevano braccine tornite e setose; quando tornavamo dal mare erano color biscotto con una lievissima peluria dorata. Avevano un profumo buonissimo, da piccoli.



Ed eccoli qua tutti e tre: nessuno preoccupato, anzi; quando entro in salotto girano le teste all'unisono: "Già qui? Ma che ore sono?"

Sì, li volevo trovare qui ma anche no: come glielo dico? È bello che siano qui tutti e tre, così faccio in una volta sola; ma sarebbe andata bene anche con uno solo, che avrebbe provveduto ad avvisare i suoi fratelli. Io, però, mi sento intera solo quando li ho qui tutti e tre assieme. Intera per quanto possa esserlo senza Paolo.

Ad ogni modo: quando hai bisogno di loro non ci sono mai, se va bene ti lasciano un bigliettino sul tavolo – ceno da Lorenzo non so a che ora torno non ti preoccupare, sono da Benedetta poi forse dormo da loro casomai ti telefono, lascia qualcosa in frigo non so a che ora arrivo – e invece, quando vuoi procrastinare di qualche ora una brutta notizia, non perché li abbia cresciuti nella bambagia (e per fortuna, perché la vita li ha provati anche troppo presto), ma perché, siamo onesti, hai esaurito da sedici anni le parole adatte per spiegare che nulla è eterno nella parte fisica del mondo, eccoli lì belli schierati, perfino tutti pronti a sedersi a tavola con te, cosa che non capita più o meno da Natale.

Sono proprio belli i miei bimbini, a partire da Michele, che trent'anni fa mi ha fatto provare l'emozione più grande della mia vita. Non che gli altri due siano stati da meno, ma quella era indubbiamente la prima volta. Michele ha i capelli corvini come i miei ma la fortuna di avere due occhi blu cupo, ereditati dal bisnonno. È alto, atletico, inseguito da una frotta di damigelle a cui non dà retta perché, non bastasse il resto, è anche una brava persona e una relazione, finché dura, merita una fedeltà accurata e totale.

Prigionieri della SperanzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora