Rivedo Francesca il primo giorno di scuola, in prima elementare. Aveva i capelli biondi raccolti in due codini e io, nera come un corvo, desideravo da sempre una testa dorata e lucente come la sua.
Mentre noi eravamo tutti omologati con grembiule nero e fiocco rosso, lei aveva un grembiule blu e un bellissimo fiocco azzurro. Finimmo per essere compagne di banco; non ci eravamo mai viste prima, nemmeno ai giardinetti perché Francesca era arrivata in città da uno o due giorni.
Ricordo di aver passato una mano sul suo fiocco e Francesca, tranquilla, mi aveva detto: "Lo vuoi?". Non sapevo che questo sarebbe diventato un intercalare dal quale non sarei mai riuscita a difendermi; bastava che le mostrassi un oggetto esposto in una vetrina o le dicessi che mi piaceva una certa cosa e lei partiva con il suo "Lo vuoi?", disposta a rinunciare alla paghetta o ad offrirmi, prendendola dal suo astuccio, la stilografica che aveva desiderato per anni pur di farmi un regalo. Io protestavo, dicevo: "Ma come si fa a fare un discorso con te?" però, sotto sotto, le sue attenzioni mi facevano un piacere immenso.
Quel giorno, a scuola, non avevo risposto a quel primo "Lo vuoi?", ma lei in un attimo si era tolta il colletto e il fiocco, aveva rapidamente slacciato i miei e aveva fatto lo scambio, ridendo.
"Finalmente! Mi sentivo troppo diversa da voi!" aveva esclamato soddisfatta.
Non avevo calcolato che la mia mamma diventava isterica per un nonnulla. Alla mia uscita da scuola, vidi chiaramente che la domanda "Com'è andato il primo giorno?" le si era congelata sulle labbra mentre i suoi occhi inventariavano me e tutte le proprietà connesse e si fermavano inorridite sul fiocco non mio.
Scommetto che avrebbe riconosciuto quello che aveva comprato lei in mezzo a mille altri uguali: figuriamoci uno azzurro! A scanso di equivoci controllai, ma vidi che Francesca si allontanava di spalle, mano nella mano con il suo papà. Saltellava e volgeva la sua faccetta tonda verso quella di suo padre mentre chiacchierava a raffica.
Così ci fu innanzi tutto un interrogatorio: non si sa mai, avrei potuto accettare un colletto con fiocco dal primo pedofilo di passaggio e poi bisognava pensare sempre al peggio per scongiurarlo e aspirare timidamente al meglio. Strana filosofia, contraria a tutto quello che ho sempre pensato io.
In seguito, ci fu un giro di telefonate visto che io non ero in grado di rispondere alla semplice domanda: "Come si chiama questa bambina di cognome?". Alla fine, la segretaria della scuola le diede il numero, mossa proibitissima perfino in tempi immuni dalle leggi sulla privacy. Penso che non avesse resistito all'insistenza e si fosse regolata come facevamo noi: dargliele vinte in fretta purché tacesse un momento.
La mia nonna mi aveva presa in braccio, consolata e asciugate le lacrime perché, ormai, era chiaro che né il giorno dopo né mai più avrei potuto mettere il mio tanto amato fiocco azzurro. Nonna non approvava queste tragedie repentine per faccende da nulla, ma non fece a tempo a protestare perché accadde il miracolo: la mia mamma trovò deliziosa la mamma di Francesca e, superando per una volta la sua diffidenza verso le persone viste o sentite una sola volta (è pur sempre meglio essere prudenti; ecco perché io non lo sono affatto), decise che ci saremmo viste per merenda in un bar dove le signore potevano entrare da sole senza problemi: tè e pasticcini per le grandi e gelato per le bambine e poi in giro per negozi per gli acquisti per la scuola.
In effetti, la mamma di Francesca era veramente una persona deliziosa e fonte per sempre del mio amore incondizionato. Rideva spesso, era allegra e solare e, francamente, non poteva fregarle di meno del colore dei grembiuli e dei fiocchi; anzi, a ben pensarci lei avrebbe optato per il fai da te, perché tutti questi poveri bambini vestiti allo stesso modo le facevano una pena tremenda e le sembrava che questa uniformità esteriore stesse a simboleggiare quello che ci avrebbero fatto: invece di coltivare i nostri talenti ci averebbero rincitrulliti tutti quanti secondo un modello unico.
Divenne immediatamente il mio idolo, perché io mi sentivo davvero strettissima nell'attenzione ossessiva che mia madre poneva alle regole. Francesca, invece, non si sentiva sicura in balia di questo diffuso anticonformismo, per cui in cuor suo adottò la mia mamma come la migliore che avrebbe mai potuto capitarle. E io adottai la sua, seduta stante.
Forse per questo, o perché ci si preparava in dono una meravigliosa amicizia, anzi una fratellanza, da quel giorno ci separammo solo per i rispettivi viaggi di nozze.
Quando andavamo al ginnasio, ormai avevamo capito l'antifona; c'era la storia delle feste del liceo, per esempio. Erano gli ultimi anni in cui avremmo accettato di far scegliere i nostri abiti dalle mamme, perciò, mentre a me era destinato un sobrio abitino blu, niente orecchini o collane (l'eleganza è una cosa che non si nota!), ballerine col fiocco e un braccialetto d'argento poco appariscente, Francesca si presentava con ampie gonne a fiori, camiciotto di tela indiana, nastrini nei capelli ricciuti e una miriade di colori, foulard, bracciali con i campanellini.
Nel bar tra casa mia e il Lions Club dove si sarebbe svolta la festa, andammo in bagno e ci scambiammo i vestiti, raggiungendo entrambe la perfetta felicità. Facemmo lo stesso al ritorno (il coprifuoco partiva alle dieci con tolleranza di dieci minuti) ma la nostra foto finì sulle pagine del giornale locale. Tragedia. In stereo, per giunta. Ma da allora la mia mamma si tirò indietro con atteggiamento di grande disprezzo; per cui, alla fine, riuscii a vestirmi come volevo io, a seconda del grado di ribellione: dai vestiti da zingara ai pantaloni a zampa d'elefante ("una vera volgarità, cara la mia figliola!") ai maglioni norvegesi fitti di minuscoli disegni jacquard, che divennero la mia divisa per anni.
C'era una domanda a cui mamma si rifiutava di rispondere. Bastava avesse parlato e io sarei diventata tenera come un agnellino. Per cui alla fine non le chiesi più nulla. Fino a dopo Paolo. Poi si va all'Università, si esce, pizze e cinema, musica a tutto volume mentre si va al mare all'alba, sull'autostrada deserta. "Mi vuoi sposare?" "Sì". Senza nemmeno un attimo di esitazione. Poi il travaglio, il dolore, un urlo che si mescola con i primi vagiti di tuo figlio, il grembiulino per l'asilo e come faccio a passartelo che tu sei una bambina e non vanno i quadretti blu di tuo fratello? E se poi le maestre ti prendono per un maschietto? "Meglio, mamma! Così faccio a botte anche io!" E tu, piccoletto, da dove mai sei arrivato, con la tua faccina rosea e beata, gli scatoloni dei vestiti dei tuoi fratelli tirati fuori da altri armadi, tutti questi bambini semi coetanei, una baraonda che è come avere sempre una classe anche a casa.
Poi la vita arriva, e succedono delle cose che non avevi previsto, che avresti creduto di leggere solo sul giornale, forse inventate, di certo inesistenti nella tua esperienza futura. Ma succedono: proprio a te.
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Prigionieri della Speranza
General FictionL'io narrante è una donna di mezza età, con i figli grandi. La sua vita è stata complicata ma piena di belle cose, che non dimentica e di cui è grata. La storia si svolge in una settimana, sette giorni che cambieranno di nuovo la sua vita. C'è un in...