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L'amore per lo sconcio, il macabro e il pericolo
deriva da un sempre più disperato tentativo di inibirsi.
Affrontare il peggio per diventare immune a tutto.
Perché forse l'unico modo per non soffrire più è non sentire niente.



WINSTON

Dopo l'intervista, mi recai al museo per incontrare alcuni dei miei fan.
Il cielo era grigio, un piccione si aggirava nei dintorni cercando di beccare un pezzo di pane troppo grande per essere ingerito. Una folata di vento fece rotolare un mozzicone di sigaretta fino ai miei piedi.
A ogni mio passo verso il palazzo, urla, lamenti e pianti si intensificavano. Le guardie che mi scortavano si scambiarono tra loro delle occhiate dubbiose, che notai nonostante il loro tentativo di restare seri e diligenti.
Sorrisi compiaciuto tra me e me.

Prima dell'inizio del meet and greet, venni accompagnato nella sala conferenze che presto sarebbe stata teatro dell'evento. Appena entrato, notai la ragazza che mi avevano descritto come una giovane artista emergente americana, arrivata in città da appena un mese. I suoi quadri erano esposti insieme ai miei quel giorno.

«Ciao, sono Lia». Mi salutò con un sorriso spaesato e con in mano un caffè Starbucks. Fino a un momento prima era in piedi immobile, ferma a guardare il quadro appeso alla parete.

«Molto piacere, Winston». Tacqui per un attimo, e anch'io mi accinsi a contemplare il quadro. «L'isola dei morti di Arnold Böcklin» notai.

«È un quadro così affascinante» disse lei elettrizzata. «Scusa se ti sembro nervosa. Cioè, lo sono. Sono nervosa. Ed emozionata. Ma soprattutto nervosa. Insomma, mi ritrovo di fianco all'artista che più mi ha ispirata». Dirlo per lei sembrava un modo di esorcizzare il timore.

Ai miei occhi parve così dolce che non potei fare altro che sorridere e ringraziarla per le parole gentili e la sua stima. «Sono contento che ti piacciano i miei quadri».

«Figurati, avrei così tante domande. Ti spiace se...? So che sei molto riservato, quindi se non ti va non fa niente. Lo rispetto».

«Non c'è problema, purché non si parli della mia tecnica».

«Certo, certo». Rifletté un momento, poi: «Per esempio, i nomi dei tuoi quadri... Ho notato che sono molto singolari, come "Una canna con la morte" o "Lettere Senza Dio" e "Piovono angurie". C'è una storia dietro questi nomi?»

Mi finsi pensieroso. «Solo pura poesia sotto forma di colore» risposi.

Lia annuì, ancora più incuriosita.

«E "Il giardino della follia"? Ha un nome così interessante».

«È uno dei miei preferiti. Quello che mi ha portato al successo».

«Pensa te, cosa può fare un solo quadro... Mi domando se avrò la stessa fortuna, questa è la mia prima esposizione». Prese un sorso dalla tazza. «Sai, al liceo mi portavo una fiaschetta da cui bere per allentare la tensione prima delle verifiche. E anche per festeggiare le interrogazioni andate bene, in realtà» proseguì lei. «Ho messo del gin nel caffè, quindi non farci caso se sono un po' esaltata» mi sussurrò infine.

«Alcolizzati non si nasce, si diventa» risposi. «Il tuo segreto è al sicuro con me».

Immaginai che parlare la distraesse dalla sua agitazione. Non aveva l'aria di essere una tipa normale. Mi guardava con occhi grandi, sembravano nati dalla matita di Walt Disney. Non stavamo parlando faccia a faccia, lei era di fianco a me, ma potevo percepire comunque il suo sguardo addosso alla mia guancia. Con la coda dell'occhio la vidi tenere il mento un poco più in su rispetto al normale. Era tenera, e mi venne spontaneo sorridere; quando me ne accorsi cercai di ricompormi.

«Ricordo ancora la mia prima mostra, era una sera di luna nera e pioveva. Non venne nessuno e fu tremendamente imbarazzante».

«Nessuno? Davvero?»

«Nemmeno la mia ragazza».

«Dio è... è così assurdo. Insomma, guardando dove sei adesso è difficile da credere. E lei, che stronza!»

«Cose che capitano, stiamo insieme da sette anni».

«Oddio, scusa! Che figuraccia!»

«Fa niente. È davvero una stronza».

La conversazione fu interrotta da un ragazzo dello staff: il meet and greet stava iniziando.

Le porte principali della sala conferenze si spalancarono, rivelando un enorme open space dal pavimento a scacchi e le pareti nere, su cui le mie coloratissime tele risaltavano con fierezza. Una massa di persone iniziò a strillare entusiasta il mio nome, le stesse persone che fino a un secondo prima stavano piangendo davanti alle mie opere.

Dopo un paio d'ore, e dopo aver firmato un'infinità di autografi, la sala delle esposizioni rimase vuota. Mi recai lì, per contemplare l'arte nel silenzio più assoluto, al punto che riuscivo a sentire il mio stesso respiro. Silenzio che fu prontamente interrotto.
«"Uomo con il coltello in bocca"».
Dietro di me era comparsa Lia, con in mano un altro caffè, e quasi sobbalzai per il modo in cui la sua voce mi aveva risvegliato dai pensieri. «È il pezzo forte della tua mostra, giusto? Il tuo capolavoro» le chiesi.
«Sì».
«Posso...» mi sporsi in avanti, come a chiedere se potessi avvicinarmi oltre la corda di sicurezza «non capisco che tipo di pennello hai usato per dare questo rilievo».
«Non ho usato un pennello, ma mi rendo conto che da qui non si capisce. Vai pure più vicino». Spostò i paletti con la corda e mi fece avvicinare. «Vedi, sono cadaveri. Insetti morti. Moscerini per il nero, coccinelle per il rosso».
«È un mosaico di morte» realizzai ad alta voce, incantato. «Se posso chiedere, li... Insomma, sei tu a...»
«Sì». Si avvicinò a me e sussurrò: «Mi piace il modo in cui urlano».
«U-urlano?» continuai a indagare. Lia iniziò a ronzarmi intorno. Nonostante lei non fosse nessuno, mi sentii in soggezione.
«Li sento... I loro ronzii, le loro voci, le loro urla. Sono ovunque» sorrise.
Un sorriso, un ghigno.
Uno di quelli che non si possono descrivere.
Uno di quelli che trascendono il concetto stesso di sorriso.
Ma se solo avesse saputo quello che si celava dietro alla mia di tecnica, non so quanto avrebbe resistito quel sorriso d'orgogliosa perfidia.
Le sue labbra risplendevano grazie al lip-gloss così come il rosso del suo quadro, e quello stesso rosso mi stava dicendo qualcosa.
Sono sempre stato convinto che ogni quadro abbia un'anima e che sia in grado di parlare. E quel quadro mi stava urlando, in tutte le lingue del mondo, di andare da lei. Mi spingeva verso di lei.
Accarezzai con gli occhi la superficie della tela, immaginando quello che Lia doveva aver provato durante il suo processo creativo. Percepivo il dolore inflitto a quei piccoli esseri viventi. Immaginavo il frantumarsi dei loro esoscheletri.
Guardai il quadro, poi lei.
Dondolava avanti e indietro sulle punte dei piedi – tacco, punta, tacco, punta – drogata di non so quanti caffè.
Nell'osservarla, il tempo mi parve dilatarsi.
«Esci con me». Con tre semplici parole posi un limite a quell'attimo infinito. Senza pensare a una qualsiasi possibile figura di merda. Cosa che... non era affatto da me. Non volevo sembrare spocchioso o dare l'impressione di uno che crede di potersi permettere tutto solo perché famoso. Giustificare i miei comportamenti impulsivi con la fama era qualcosa che non avevo ancora fatto. Il motivo era semplice: per me, io rimanevo ancora quel ragazzino con la maglietta un po' troppo larga, la testa china, e i capelli in disordine – escluso da tutti tranne che dai propri mostri interiori.
La mia era piuttosto semplice spontaneità, qualcosa che oltre a voler fare, sentivo di dover fare.
Notai dalla sua espressione che l'avevo presa alla sprovvista. «Come colleghi, ovviamente» aggiunsi allora.
«D-davvero? Cioè... sì! Certo, volentieri». Tirò fuori dalla tasca il telefono per segnarsi il mio numero, e io feci lo stesso con il suo.
In vita mia non mi ero mai sentito così vicino spiritualmente a una persona. Solo una volta, forse.
Ma era stato tempo fa...









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